Un mondo devastato, silenzioso, prosciugato. Cosa resta effettivamente di noi, dopo le ombre di The Last of Us, di entrambi i capitoli sapientemente creati da Naughty Dog, è quel vuoto che chiunque, nel bene o nel male, prova quando qualcosa che si perde diventa impossibile da recuperare. Se nel 2013 The Last of Us ha avuto successo, diventando un metro di paragone per un genere apprezzato e amato, è merito soprattutto del suo messaggio finale, della difficoltà di Ellie, del percorso nell’inferno di Joel e di quella mancanza che, purtroppo, lascia sgomenti e attoniti.
Di The Last of Us, opera che tutti hanno sviscerato e discusso, ci sarebbe davvero molto da dire. Qualcuno lo incensa a capolavoro, a opere indiscussa, alla dimostrazione che la sottile linea rossa che separa il videogioco e il cinema è sottile, e in tante altre occasioni si potrebbe in effetti non sapere affatto come raccogliere i pensieri e, in seguito, comprendere il perché un’opera del genere è arrivata a essere una delle migliori in assoluto. Perché sì, diciamocelo: un racconto del genere, sporco e sanguinolento, in cui del vecchio mondo è rimasto pressoché nulla, è proprio ciò di cui avevamo bisogno.
The Last of Us è un capolavoro o solo un ottimo gioco? Il primo, lo ammetto, non mi fece impazzire
Penso addirittura sia sottovalutato nel grande ecosistema di SONY, anche se è di sicuro uno dei suoi videogiochi di punta, nonché quello che ha proposto un personaggio, quello di Nathan Drake, estremamente curato e profondo. Insomma, è impossibile dimenticarselo, specie se non si può fare a meno delle opere ideate dalla penna di Neil Druckmann. Essere gli ultimi, d’altronde, è forse la cosa che riesce meglio al genere umano: lo si comprende attraverso la sofferenza di Joel, rimasto solo al mondo. Ed è proprio in The Last of Us: Parte I, l’opera precedente alla seconda iterazione del franchise, che si comprende maggiormente quanto ogni cosa, sia dal punto di vista narrativo che di game design, fosse al posto giusto.
OLTRE IL RAPPORTO TRA PADRE E FIGLIA
Ben prima che il Cordyceps prendesse il sopravvento, mietendo vittime fra i civili e trasformando gli uomini in creature abominevoli, il mondo intero arrancava, ma non conosceva ancora il dolore. Joel faceva fatica ad arrivare alla fine del mese come chiunque, prendendosi cura di Sarah, sua figlia, con la stessa abnegazione che ha sempre avuto per mantenere forte ciò cui tiene totalmente. Poi il mondo è andato, come ben sappiamo, totalmente allo scatafascio: il virus ha preso il sopravvento, tutto si è tramutato in un dolore senza fine e i pochi sopravvissuti sono fuggiti in aree protette. Degli Stati Uniti, come del mondo, è rimasto poco e nulla
.Degli Stati Uniti, come del mondo, è rimasto poco e nulla
L’orologio rotto che la sera di vent’anni prima, quando scoppiò l’apocalissi, gli fu regalato da Sarah. Lo si avverte attraverso le parole di Ellie, che nel videogioco ha la stessa età di quando Sarah è stata uccisa dal soldato che tutti abbiamo imparato a odiare. È stata decisamente una scena traumatica, quella, specie se la compariamo con quella presente nella serie televisiva HBO, che ha replicato ed espanso completamente il mondo degli ultimi di noi, andando ad affinare un lavoro egregio e particolareggiato, profondo e inedito. Un lavoro che ha saputo raccontare al mondo una storia che, in seguito, ha tessuto le trame del secondo capitolo.
Joel rivede Sarah negli occhi e nell’età di Ellie
Un genitore può sempre esserlo anche nei confronti di qualcun altro. Il punto è che Ellie è cresciuta tanto in fretta, troppo in fretta sin dal momento del morso che, però, non l’ha trasformata. Era la soluzione a tutto, alla sofferenza che per oltre trent’anni aveva avvolto il mondo intero, costretto ad arrancare e a soffrire nel silenzio. Era la soluzione per qualche altro padre, ma non secondo Joel. Ed è qui che l’intero canovaccio narrativo si eleva, esattamente con una battuta finale che è una menzogna, per poi divenire ben altro: una strada lastricata di dolore e morte.
LA STORIA DI VENDETTA E REDENZIONE DI THE LAST OF US: PARTE II
Il motivo della stesura di questo speciale, lo ammetto, è un pochino per fare da coro al Kommissario e alla sua recensione della remastered del secondo capitolo che, come accennavo, prediligo di molto rispetto al primo per le tematiche al suo interno e la libertà creativa data a Neil Druckmann, che si è superato di molto e ha migliorato, di conseguenza, anche la sua scrittura. Ben lontano dalle disavventure del primo capitolo, infatti, sia Joel che Ellie hanno finalmente trovato una loro tranquillità, a Jackson, lontano dai perigli che hanno dovuto affrontare nel loro lungo percorso per arrivare a un posto sicuro, dopo gli eventi di Seattle – anche se è passato diverso tempo, preferisco restare in silenzio su quella parte. In un lungo e denso prologo, però, viene anche spiegato qual è il reale peso del sacrificio.
Ben lontano dalle disavventure del primo capitolo, infatti, sia Joel che Ellie hanno finalmente trovato una loro tranquillità, a Jackson
Mentre Ellie arranca, non riuscendo a gestire il peso della sua esistenza e da cos’è stata protetta con una menzogna, dall’altra c’è qualcuno pronto a compiere la sua vendetta. È qui che si crea, infatti, il dualismo presente nel secondo capitolo del franchise, con una nuova protagonista, Abby, pronta a usare ogni suo mezzo per vendicare il padre. Sì, anche a usare una mazza da golf per l’occasione. E così, quando tutto va in malora e Jackson diventa un posto pericoloso, Ellie ritorna in un inferno, lo stesso inferno che si era lasciata alle spalle. È un cammino lastricato di morte, il suo, che si sposa con un game design perfezionato per l’occasione, ancora maggiormente curato, ancora più brutale e deciso, proprio per trasmettere al giocatore ogni sensazione.
È un cammino lastricato di morte, il suo, che si sposa con un game design perfezionato per l’occasione