Bisogna ammetterlo: ai ragazzi di Dontnod il coraggio non manca. Sì, perché chiudere definitivamente il capitolo narrativo di Max e Chloe con il primo Life is Strange (e relativo prequel, sviluppato però da altri) è un chiaro segno di come lo studio francese non abbia nessuna voglia di vivere di rendita, sfruttando personaggi ormai entrati di diritto nel nostro cuore. Il team si è anzi riservato la possibilità di creare un sequel di Life is Strange, spostando l’attenzione narrativa lontano da Arcadia Bay.
Così ci ritroviamo in un sabato pomeriggio di dicembre dalle parti di Beaver Creek a prendere i comandi di Chris Eriksen, bambino di dieci anni con una fervida immaginazione, qualità che ha ereditato dalla madre Emily, fumettista e illustratrice di talento che non sembra essere presente nella stessa casa.
Ci ritroviamo in un sabato pomeriggio di dicembre nei panni del piccolo Chris Eriksen
BAMBINI CHE GIOCANO
Il Captain Spirit del titolo non è altro che l’alter ego di Chris che rifugia un profondo dolore dietro una mascherina di carta e un mantello improvvisato. Come da prassi in storie di questo tipo, la figura del supereroe senza paura e senza macchia è il grande castello di carta che Chris ha costruito nel suo intimo, nella sua camera piena di fumetti, giochi e penne colorate per affrontare un dolore che si cela nel profondo del suo cuore. Così facendo, Chris idealizza la sua abitazione e il suo cortile come un’immensa galassia da esplorare, zeppa di nemici da sconfiggere, tra i quali si annoverano il temibile pupazzo di neve dietro casa o anche il letale scaldabagno, da sconfiggere nel ripostiglio buio e angusto.
Chris nasconde un profondo dolore dietro una mascherina di carta e un mantello improvvisato
Oltre alle attività elencate da Chris, l’esplorazione della casa (con qualche piccolo enigma da risolvere) sarà fondamentale per scoprire il background di Emily, madre di Chris, capirne il destino e farsi, così, un quadro completo dell’atipica relazione tra Chris e il padre. Quest’ultimo, purtroppo, ai nostri occhi diventa l’anello debole della narrazione, a causa di alcune battute e un comportamento che, nonostante le debite motivazioni, risulta poco credibile e convincente. Come in Life is Strange, ritorna quel ‘feticismo’ per ritagli di giornale, lettere e fotografie, oggetti inanimati che restituiscono un valore narrativo indiretto fondamentale, alimentando sempre più uno dei fattori che hanno reso vincente la formula proposta nel titolo capostipite, ovvero l’emozione.
EMOZIONI TROPPO BREVI
Il più evidente difetto di Captain Spirit è che dura davvero poco: in appena trenta minuti, se si corre ad attivare un particolare evento, arriveremo verso l’inevitabile – e misteriosissimo – finale coi relativi titoli di coda. L’avventura, invece, durerà invece meno di due ore se ci perderemo nel completamento di tutte le attività, o nell’osservazione di ogni singolo oggetto della casa; nonostante tutto, però, le gioie, i dolori, le paure e le speranze di Chris emergono fortemente ai nostri occhi, grazie alla cura maniacale con cui viene messo in scena il fattore emotivo.
Il più evidente difetto di Captain Spirit è che dura davvero poco, pur tenendo in conto la sua funzione
Le Fantastiche Avventure di Captain Spirit apre le porte a Life is Strange 2, mostrandosi in grande spolvero. La storia talvolta inciampa in alcuni cliché narrativi; le stesse ovvietà, però, si rivelano fondamentali per far respirare una storia di grande dolore e malinconia, al tempo stesso pregna di magia e mistero. Chris è già un personaggio adorabile, pieno di sfaccettature e riuscitissimi dettagli; per quel che mi riguarda, grazie anche ai suoi “superpoteri” spero davvero che Life is Strange 2 si concentri interamente su di lui.