Lienzo in spagnolo significa tela, un supporto tessile nato per creare, raccontare una storia, esprimere se stessi. Lo studio messicano che ha autoprodotto Mulaka si chiama proprio così: come forma di estrema coerenza con il nome che porta, ha utilizzato il videogioco quale veicolo per esprimere il sentimento, la tradizione e la cultura del proprio popolo, quello dei Tarahumara, civiltà precoloniale del territorio del Chihuahua (dove ha sede lo studio), nel Nord del Messico. La forma scelta è quella di un action adventure classico, con enigmi, combattimenti ed elementi platform, che ricorda moltissimo, in termini di struttura, Okami, benché, chiaramente, con uno scopo ben minore.
ALLA SCOPERTA
Proprio come il magnifico titolo di Capcom, anche in Mulaka tutti gli elementi del mondo e della storia sono strettamente collegati alla cultura di appartenenza. Il giocatore veste i panni del Sukurúame, un guerriero sciamano armato di lancia, capace di interagire con la dimensione degli spiriti e di trasformarsi in animali sacri per entrare in simbiosi con la natura. In termini di gameplay, Mulaka non inventa certo nulla di nuovo, e anzi si adatta con linearità allo schema di genere, proponendo sei aree più o meno vaste da completare trovando tre pietre dopo aver risolto semplici enigmi ambientali e sconfitto il boss di fine livello. Se da un lato, però, è estremamente apprezzabile e anche riuscita l’idea di declinare secondo i canoni della cultura Tarahumara qualsiasi aspetto della produzione, è anche vero che nessuno di questi è realizzato con una cura tale da restare nella mente del giocatore. Le ambientazioni sono vuote e poco significative, sebbene salvate, come tutto il gioco, da una direzione artistica che ha scelto uno stile low poly efficace a richiamare le pitture rupestri e il carattere primitivo dell’avventura, laddove la presenza di indicatori per tutto rende abbastanza banale la fase di esplorazione. Gli elementi metroidvania presenti non sono tali da spingere nella direzione del completismo e, a dire il vero, è possibile terminare l’intera avventura anche senza quasi mai tornare indietro a Paquimé, la città dove spendere i Korima (idealmente beni da condividere con la comunità) accumulati per far crescere i poteri del Sukurúame.
Mulaka è sempre piacevole, ma mai appassionante
VIAGGIO IN MESSICO
Se, per quanto lineare e ripetitivo, Mulaka resta nel campo del piacevole nelle sue fasi di esplorazione e di platforming (soprattutto quando legate ai poteri della trasformazione), deraglia pericolosamente durante i combattimenti, in particolar modo per la maniera scientifica con cui sono piazzati. Ogni nuova area, infatti, presenta una serie di ondate di nemici a caso che si ripete copiosamente e che lascia ben poco spazio alla creatività e alla strategia. Una volta compresi quali nemici sono deboli ai colpi potenti e quali, invece, debbano essere semplicemente incalzati con una raffica di colpi leggeri dopo averne schivato gli attacchi, ogni battaglia diventa ben presto una routine poco stimolante. Tra l’altro, l’idea di circoscrivere l’area con dei limiti fisici, per quanto motivata da aspetti culturali, resta una soluzione anacronistica e pesante, specie quando il sistema di combattimento è noioso. La situazione migliora di molto durante le boss battle, che certo si risolvono facilmente una volta individuato il pattern, ma almeno costringono il giocatore a utilizzare i quattro poteri e le altrettante pozioni speciali a disposizione.
con Mulaka forse Lienzo ha semplicemente peccato di inesperienza
Mulaka è un action adventure di stampo classico, che si ispira molto a Okami e prova a raccontare le radici della cultura Tarahumara. Pur sforzandosi di integrare in maniera intelligente gli elementi folkloristici e mitologici all’interno del gioco, il titolo di Lienzo resta prigioniero di un impianto di gioco fin troppo lineare, un level design spesso banale e un sistema di combattimento che, boss a parte, è davvero noioso. È confezionato bene, ha una sua personalità e si gioca con serenità, ma di certo non lascia il segno.