Difficile trovare le parole per descrivere RiME, più che altro perché di parole, il titolo spagnolo, non ne ha bisogno. E anzi, praticamente si rifiuta di usarle fino ai titoli di coda, quando la voce calda di Silvia Guillem Cofreces riassume quanto abbiamo vissuto con un canto melanconico, sentito, vibrante, accompagnata dalle note di pianoforte di una colonna sonora che, per tutte le oltre dieci ore di gioco, è stata parte integrante di un sogno. Le parole scritte da David Garcia Diaz per sintetizzare il viaggio sono necessarie in quel momento, perché il peso emotivo dell’avventura di Tequila Works ha bisogno di trovare uno sfogo, e – almeno nel mio caso – avrei avuto difficoltà a trasformarlo in parole, raccontarlo, sintetizzarlo.
D’altronde, se a distanza di un giorno intero dai miei ultimi passi nel mondo di RiME ho ancora un po’ di vertigini nel pensare di dare forma a un articolo che possa raccontare e analizzare l’avventura vissuta pad alla mano, vuol dire che RiME ti resta addosso come la salsedine del mare che, di fatto, è il vero protagonista del gioco. È un mare simbolico, onirico, chiaramente fantastico nella sua tonalità di azzurro intensa, in cui ci si perde di sovente, ma è anche uno specchio d’acqua che ha tanto, tutto, in comune con il nostro mare, il Mediterraneo. Non è un caso, infatti, che, nei crediti proprio le acque che bagnano tre continenti siano ringraziate con un’accorata dedica, perché RiME è il Mediterraneo, è il suo popolo, siamo noi.
MARE NOSTRUM
RiME non ha bisogno delle parole perché ha il mare, lo scroscio delle onde, il verso dei gabbiani e, soprattutto, ha la luce tipica della Spagna, dell’Italia e della Grecia. Nei panni di un ragazzino naufragato misteriosamente su un’isola è impossibile non passare la prima mezzora a vagare, cercando di capire dove siamo, ma anche chi siamo e dove dobbiamo andare. Siamo come il protagonista, perduti e spaesati, eppure non è possibile non contemplare il paesaggio, sentire il calore sulla pelle, incantarsi per quei tramonti rossi, con il sole basso e la luce calda che riscalda le ossa, mentre si riflette sulle rocce bianche di strane costruzioni. Da italiano del Sud, con trascorsi vacanzieri spagnoli e greci, il figliolo di Tequila Works mi ha fatto sentire immediatamente a casa, ma ancora di più, mi ha ricordato chi sono. È proprio attraverso alcuni meccanismi identitari che RiME stabilisce le regole: per trovare una via d’uscita, una spiegazione, un senso, è necessario guardarsi dentro, ed ecco che emerge immediatamente uno degli elementi fondativi della nostra cultura, il canto. Scopriamo quasi immediatamente che la voce melodiosa del protagonista, anche senza bisogno di proferire parola, serve a farci strada attivando alcuni interruttori di giada, fondamentali per risolvere altrettanti enigmi e aprirci la strada. L’unico altro aiuto ci è dato da una volpe, che, come quella di Lelapo, è irraggiungibile, eppure stranamente familiare. Come la volpe, a darci un punto di riferimento è una strana figura incappucciata di rosso, che appare misteriosamente all’orizzonte, al pari del viandante di Journey. Pochi elementi, non confusi ma distanti, fanno da bussola in un videogioco che fa del senso di perdita e di ricerca il suo cuore pulsante.
RiME ti resta addosso come la salsedine del mare che, di fatto, è il vero protagonista del gioco
Il gameplay è chiaramente ispirato ai lavori di Fumito Ueda, ma, se devo essere sincero, al netto del facile (e azzeccato) paragone con ICO, mi sento di dire che il titolo più simile a RiME è Prince of Persia, il bel reboot in cel shading del 2008. Come nel gioco di Ubisoft, di fatto, il game over non esiste, e sebbene non ci sia Elika in grado di salvarci da un salto sbagliato, anche nell’opera di Tequila Works, dopo (una non troppo elegante) schermata nera ci si ritrova sulla piattaforma di partenza, pronti a continuare l’avventura. In assoluto, però, è quel senso di calore e meraviglia, quell’aria di famiglia che sicuramente avvicina culturalmente più l’Asia Minore a noi di quanto non sia il Giappone che rende istintivamente più simili i due prodotti. In definitiva stiamo parlando di un’avventura con elementi di platform e profondamente radicata sugli enigmi, la cui risoluzione non è mai banale, ma neanche così tanto complicata, perché integrata nel flusso della scoperta.
UN VIAGGIO ALLA RICERCA DI SÉ
Se il tema dell’identità culturale è fortissimo e porta sullo schermo molti richiami agli elementi del mito classico (con il ruolo attivo del Sole all’interno di alcuni enigmi e l’uso del dedalo come metafora di ricerca interiore), il viaggio di RiME non è solo un’avventura attraverso le radici della cultura mediterranea. Il mare, l’isola e i suoi colori vividi rappresentano una culla in grado di avvolgere qualcosa di molto più delicato e sottile. Un po’ come la conchiglia con la perla, il cuore di RiME è decisamente più prezioso della magnifica cornice, e l’intera avventura è strutturata in maniera tale da svelarsi pochissimo sino alle battute finali, in grado di togliere il fiato. Le quattro macro aree del gioco, che rappresentano dei grossi livelli all’interno del quale ci si può muovere liberamente fino a distanza di orizzonte, sono infatti le tappe di un viaggio intimo, personale, incredibilmente significativo, che trova il suo senso ultimo nel quinto capitolo, un epilogo spiazzante, di quelli che facilmente ti bagnano gli occhi e ti fanno venire il groppo alla gola.
L’esplosione della storia, però, è un crescendo che, fondamentalmente, è quasi anticlimatico rispetto all’azione, ed è come se tutto il gioco fosse stato strutturato secondo il chiasmo, la figura retorica che crea un incrocio immaginario tra due coppie di parole. Se all’inizio l’apertura apparente del mondo, la forza dei colori e la bellezza di ciò che ci circonda alimenta la nostra voglia di esplorare ed esorcizza la paura dell’essere soli e persi, con l’avanzare dell’avventura e con la scoperta degli elementi narrativi – affidati per lo più a collezionabili volendo facoltativi – il mondo sembra avvilupparsi intorno al protagonista, mentre le aree esplorabili si restringono e richiedono molta più attenzione durante l’esplorazione.
RiME al massimo livello di dettaglio è davvero bello, grazie soprattutto a un notevole uso scenico della luce
Anche gli enigmi seguono un percorso quasi evolutivo: col procedere si arricchiscono di elementi che spaziano dalla fisica all’interazione con lo scenario, e contribuiscono a rendere un po’ più chiara una vicenda che fino alla fine, prima di schiudersi in tutta la sua potenza, avanza per metafore. Il risultato è un’avventura magnetica, calibrata in maniera quasi perfetta, che dura il giusto (una run completa, esplorando quanto basta e senza collezionare tutto, si attesta sulle dieci ore) per non diventare stucchevole, e che solo in alcuni casi fa storcere il naso per via di una telecamera non sempre eccezionale, di un paio di soluzioni ripetute e di qualche ingenuità tecnica che denota le possibilità non illimitate di un team di venti persone. Mi riferisco soprattutto a una versione PC decisamente troppo pesante e poco ottimizzata, che nel mio caso ha faticato a tenere i 60 fps stabili (cosa che riesce meglio alla versione PS4 Pro, mentre su PS4 liscia il frame rate è bloccato 30 fps) indipendentemente dal dettaglio grafico selezionato, con una configurazione abbondantemente oltre i requisiti consigliati. Certo, RiME al massimo livello di dettaglio è davvero bello, grazie soprattutto a un notevole uso scenico della luce; tuttavia, per quanto sia stilisticamente ammirevole, resta un gioco graficamente essenziale, che non può e non deve richiedere troppo al sistema. Eppure, al momento, così non è.
L’ABBANDONO DELLA PAURA
Nonostante qualche incertezza, del tutto perdonabile, Tequila Works è riuscita nell’intento di recuperare un progetto che sembrava perduto a più riprese. L’annuncio esageratamente in anticipo e il peso dell’hype che ha schiacciato il team creativo, con la conseguente perdita del supporto di Sony, avevano fatto temere per il peggio. Certo, gli ultimi due anni passati a fari spenti hanno cambiato radicalmente il gameplay di RiME, consegnandoci qualcosa di estremamente più asciutto di quanto non avesse pensato Raùl Rubio inizialmente: il team di sviluppo si è lasciato alle spalle ogni elemento survival e ha eliminato qualsiasi cosa che potesse distrarre dal senso dell’opera, che diventa quasi esemplificativa del percorso degli sviluppatori stessi. Un racconto sui concetti antitetici (e complementari) di perdita e di scoperta, un viaggio interiore alla ricerca dell’accettazione, che allinea perfettamente il nostro animo con quello del protagonista e che vede nell’ambientazione una sorta di metafora bellissima dell’esistenza.
RiME è estremamente mediterraneo perché trabocca di amore e passione per i videogiochi
RiME è un gioco che non fa nulla di nuovo, ma lo fa in maniera unica. Tequila Works è riuscita a fare propria la lezione di maestri come Aonuma e Ueda senza cadere nell’imitazione e, soprattutto, senza sacrificare le proprie origini culturali. È proprio grazie alla forte identità mediterranea (e a un ottimo mix tra elementi di design di ispirazione orientale e occidentale) che RiME riesce a essere un’avventura bellissima da vivere, con enigmi piacevoli da risolvere e un finale commovente.