Prey è il mio tipo di gioco. Recentemente solo Dark Souls III è arrivato a emozionarmi così tanto, peraltro con un coinvolgimento molto diverso: i figlioli di Miyazaki sono per me un’amante perfida ed esigente, quasi dispotica, che mi costringe a guadagnare ogni notte di sesso e persino ogni bacio; Prey, invece, è come la mia donna ideale, capace in ogni momento di darmi quello che voglio, senza penare o dover chiedere nulla.
I tratti più banali vanno spiegati brutalmente, senza più tornarci sopra: in Prey saremo “predati” e potremo diventare “predatori”, in uno scenario spaziale zeppo di alieni, come unico vero legame (insieme a dettagli gestiti in modo imparagonabile, come la manipolazione della gravità) con il gioco di Human Head. Per il resto, su Talos I tira l’aria della simulazione fantascientifica di System Shock, e coi lei la movimentata brezza di altri esempi che non ne inficiano la sostanziale originalità, da Half-Life e soprattutto BioShock, usati (e dosati) da Arkane per sostenere l’impressionante rete di personaggi, eventi e meraviglie scenografiche della sua creatura. Lo dico chiaramente, in modo che non sorgano mai dubbi: per quel che mi riguarda, Prey è di gran lunga il miglior gioco fantascientifico degli ultimi 15 anni, e nemmeno il voto – influenzato da sbavature e qualche oggettiva ridondanza – può riassumerne esattamente il risultato. Nella mia testa è già un cult.
SVEGLIATI, MORGAN
La cosa più bella, una volta raggiunto il finale (nel mio caso in più di venti ore, rigorosamente in modalità Difficile) ed espletato un mostruoso numero di compiti secondari, è che sono rimasto nella miglior condizione possibile, fortemente appagato ma col desiderio di approfondire ancora.
Su Talos I tira l’aria della simulazione fantascientifica di System Shock, Half-Life e soprattutto BioShock
In termini di trama, un reminder dell’incipit deve bastarvi: la stazione di Talos I è uno dei punti di arrivo di un’ucronia che, dalla sopravvivenza di Kennedy a Dallas e la conseguente collaborazione USA-URSS su tecnologia ed l’esplorazione spaziale, porta alla costruzione di una stazione orbitante impegnata nel continuo superamento dei limiti umani, in modo non concettualmente lontano – ai fini del gioco – dalle ricerche sui Plasmidi in quel di Rapture (con dettagli drasticamente diversi, però, alcuni dei quali esplicati nelle missioni secondarie). Qui è bene tracciare una linea netta con la serie di Irrational: la scoperta degli alieni Typhon nel background narrativo, così come nella pratica del gameplay, spinge definitivamente in un territorio più sfaccettato che contempla stealth, una larga rete di finali e una libertà molto più vicina a Deus Ex, oltre che ai due capitoli di System Shock. A proposito: stavolta dovrete penare pochissimo per trovare il codice 0451 (originariamente tratto da Fahrenheit di Bradbury, citato in System Shock 2 e in altri ibridi FPS-ARPG), posto all’inizio del gioco quasi come una dichiarazione d’intenti. L’ambizione narrativa, invece, è tutta diversa: natura della coscienza, definizione di realtà, alieni davvero alieni e tutto quel che mi piace, nemmeno avessero letto il mio cervello come un libro.
NEL CUORE DI TALOS I
Credo che un elemento del tutto oggettivo, tra i pregi di Prey, sia l’eccellente level design: l’esempio moderno più concreto è quello dei Deus Ex di Eidos Montreal, che tuttavia viene letteralmente surclassato (pur ribadendone la bontà) in termini di varietà e rivelazione visiva degli scenari. Sul finale, e soprattutto nei compiti secondari, c’è un certo grado di backtracking, ma l’esterno della stazione orbitante, così come il progressivo disastro su Talos I, sono stati sfruttati da Arkane per rendere sempre varie le fasi di esplorazione e avvicinamento agli obiettivi, passando da zone mai esplorate (complici i poteri e le abilità) e dalle diverse prospettive con cui vengono proposte, ormai preda dell’invasione Typhon o arricchite dall’orizzonte dello spazio aperto. Anche in questo, ma non solo, Prey incontra le scure profondità di Alien: Isolation, altro esempio tenuto in debita considerazione durante lo sviluppo.
Un elemento del tutto oggettivo, tra i pregi di Prey, è l’eccellente level design
La scoperta più elaborata non porta sempre e per forza all’obiettivo principale, e anzi i percorsi centrali e opzionali della stazione vengono mischiati, per importanza e ispirazione, con le missioni secondarie che si aprono dinamicamente a seconda delle azioni compiute, e almeno nel mio caso hanno lasciato poco scampo: completarle era l’unica opzione moralmente accettabile, consideratane la fattura, la pura suggestione e la potenziale rilevanza nel multifinale. Quest’ultimo può dare più o meno soddisfazione, specie per l’accostamento un po’ violento della sequenza conclusiva (o, almeno, di una di quelle possibili), ma con una sostanza che soddisfa e, come detto, fa desiderare una partita ancora più approfondita e “consapevole”.
PARTECIPAZIONE CELESTE
Altro fattore imprescindibile è la caratterizzazione dell’ambiente. Non si tratta solo di background o verosimile ricostruzione, ad esempio sul numero di armi e strumenti di Talos I (o persino di piccoli romanzi e carte da “GDR nel GDR”), ma di dettagli che si intersecano perfettamente al gameplay e rendono estremamente naturale, e quindi credibile, la fruizione dell’enorme base scientifica. Il crafting ne è un magnifico esempio: il meccanismo passa attraverso i criteri di sempre, con risorse per creare item di vario tipo, ma viene contestualizzato in un Riclicatore che ricava i materiali da comune spazzatura e li tramuta in materie prime selezionate.
Una cosa simile si può dire per l’ulteriore passaggio, quello del Fabricator, oppure per l’importantissima pratica del Gloo Cannon: utilizzato prima del disastro come diffusore di una sorta di schiuma poliuretanica per grandi superfici, lo strumento può essere adoperato per occludere perdite di fuoco e gas, costruire passaggi improvvisati (e sfruttare così la notevole verticalità, in linea con gli interni di una stazione spaziale) o anche per contrastare i Typhon, rallentandoli, inibendone i poteri o facendo scoppiare i loro orribili bubboni. In nessuno di questi casi si può parlare di perfetto realismo, sia chiaro, ma la coerenza con la storia e l’ambientazione si uniscono al piacevolissimo uso dei vari attrezzi, addirittura assuefacente per i cubetti e le sfere di materiali, fino a un risultato di rara immedesimazione.
I dettagli si intersecano perfettamente al gameplay e rendono estremamente naturale, e quindi credibile, la fruizione dell’enorme base scientifica
IL RUOLO DELL’ALIENO
Darò per scontate le informazioni sui nemici descritte nell’anteprima, salvo ricordarvi gli aspetti generali: Mimic, Spettri, Incubi e tutti gli altri Typhon trovano ben pochi paragoni tra i nemici degli action di fantascienza, e la loro genialità sta anche nel poter fare qualsiasi cosa già vista, in termini di poteri, mettendola sotto una luce fresca e originale. In fin dei conti, tolta la mimetizzazione negli oggetti, gli extraterrestri di Prey presentano una selezione di poteri elementali ad area, teletrasporto, colpi ravvicinati e quant’altro non così diversa da quella di altri colleghi, un po’ come nell’esempio delle skill descritto sopra, salvo distinguersi eccezionalmente sul piano visivo e per l’idea davvero “aliena” che riescono a trasmettere (cioè, lontana e incomprensibile). Quel che conta è l’effetto finale, con un nuovo tocco di coerenza che lega, in questo caso, i poteri usati dai Typhon alle abilità che potremo personalmente adoperare, studiandoli attraverso il fondamentale strumento dello Psicoscopio (utile anche a sgamare i Mimic nascosti, con la giusta abilità).
Tutto quel che ho descritto fin qui, peraltro, è connesso a logiche ARPG più marcate del solito: non abbiamo attributi a vista da poter manipolare, al di là della quantità di salute, vigore (colpi fisici) e riserva Psi (poteri alieni o il suddetto bullet time, unica abilità tecnologica umana a farne uso), su cui possiamo contare in combattimento; in compenso ci sono effetti di stato ben in evidenza per alcuni fattori, ad esempio in caso di sazietà dal cibo o, al contrario, di intossicazione da radiazioni. I Neuromod fanno le veci di tante altre controparti dei giochi citati, ad esempio i Praxis degli ultimi Deus Ex, e in modo simile sono dosati per costringerci a una scelta fra i 19 alberi abilità disponibili (ben di più, se si contano i rami secondari), o comunque a un mix sensato che non ci faccia perdere troppe cose, soprattutto dalla parte delle abilità umane. Immagino che ignorare la ricerca di Neuromod sia anche il modo più veloce per puntare al finale, ma lascio volentieri la prova ad altri.
E ALLORA PERCHÉ NON GLI HAI DATO 9.9?
La riposta alla domanda del titoletto non è semplice, al di là della stupidità dei numeri quando si tratta di misurare certe cose. So solo che i problemi da tener presenti non sono pochi, e che, tuttavia, non meritano eccessivo peso: il più grave è probabilmente quello legato alla presentazione e alle funzionalità della mappa (è possibile scaricarne le varie porzioni, un po’ come in Alien: Isolation), scarsamente interattiva e oltremodo imprecisa nel rappresentare lo scenario. Capisco il tentativo di non semplificare troppo l’esplorazione, ma in un caso del genere – HUD di un’avanzatissima tuta, necessità di muoversi in ambienti a sei gradi di libertà – avrei optato per una rappresentazione tridimensionale, o comunque meno minimalista nei dettagli.
Prey è l’opera più ambiziosa di Arkane per apertura dello scenario, maniacale attenzione ai dettagli e pura magnificenza scenografica
D’altra parte, non c’è troppo da lamentarsi nemmeno sulle qualità d’azione: le Intelligenze Artificiali non sono certo rivoluzionarie o prive di difetti, ma la loro “cattiveria” è tale, insieme al loro numero e varietà, da non rendere sicuro alcun passaggio dalla metà del gioco in poi, sempre più propensi a venirci a inseguire persino negli ascensori gravitazionali. Dopo un po’ mollano il colpo, con la parziale eccezione dell’Incubo (il modello è lo xenomorfo di Alien: Isolation, ma con belle variazioni di movimento e vulnerabilità), e tuttavia risultano ben più perdonabili di altri nemici visti di recente, come i poliziotti di Deus Ex: Mankind Divided, giusto perché non hanno ragioni “umane” per correrci dietro. Un poco più grave è stata la smemoratezza di un PNG circa un grave episodio, nuovamente amico dopo cinque minuti in cui mi avrebbe ucciso, così come il mantenimento di alcune consuetudini come quella di assicurarsi eccessivamente che alcuni contenuti arrivino a tutti i giocatori. Al decimo progetto di fucile a pompa verrà in mente anche a voi.
La complessità tecnica ricercata da Arkane va ben oltre gli standard di Dishonored
Le enormi aspettative accumulate in questi mesi di prove mi avevano messo una gran paura, ma alla fine sono state soddisfatte: Prey è tutto ciò che Arkane Studios aveva promesso, e forse qualcosina di più. È un enorme marchingegno non lineare in cui sono piazzati eventi dinamici, snodi narrativi e continue scelte del giocatore; è una simulazione in cui non conta che tutti i particolari siano verosimili, ma che lo diventino in funzione del loro uso estremamente naturale; è una storia di fantascienza di inusitata profondità per i blockbuster di questo genere, più ispirata rispetto a recenti colleghi (Deus Ex: Mankind Divided, ma anche Dishonored 2) e al pari, forse, solo del magnifico SOMA. Più che per la sola trama, Prey vale per il suo essere un’opera interattiva fatta di tante parti, complessissima (e non priva di difetti) eppure di alto livello nella dimensione artistica. Dimenticavo: anche la colonna sonora elettronica è una roba da urlo.