Io mi ricordo, quattro ragazzi con la chitarra, e TGM sottobraccio. Era il giugno del 1991 quando The Games Machine sfoggia la bellissima copertina con Arachnophobia e un carico di titoli di gran pregio, dallo spassoso Crazy Cars 2 al paleolitico Chuck Rock. Tutto stupendo e promettente, tutto inebriato dalla bella stagione che lasciava preannunciare giorni di nerdaggio feroce; e tuttavia io e i miei amici avevamo occhi solo per un gioco, guarda caso l’unico che non potevamo avere. Che gli vuoi dire a un nuovo episodio di Wonder Boy? Per giunta sui sistemi domestici, svincolato dalle limitazioni imposte dalla natura a gettone degli illustri predecessori, per abbracciare un mondo di gioco vasto e liberamente esplorabile. E che figata devono essere quelle trasformazioni!
UNA STORIA MERAVIGLIOSA
Avanti veloce, e The Games Machine i giochi per le console non li tratta più, la libertà estiva è stata ridimensionata dagli impegni lavorativi e i quattro ragazzi di cui sopra si vedono raramente. Nell’avvilente aria di cambiamento, però, la cartuccia di Wonder Boy III: The Dragon’s Trap è ancora con me: all’epoca non avevo né Master System né PC Engine, ma mi sono rifatto ampiamente qualche anno dopo, quando il retrogaming si chiamava solo “giochi vecchi”, e te li portavi a casa per poche lire o – ancora meglio – scambiando roba altrettanto vetusta con gli amici.
Nondimeno, a mio avviso, Wonder Boy III: The Dragon’s Trap resta il gioco più bello per l’otto bit SEGA, nonostante la sfrontata potenza del granitico Power Strike 2 e l’importanza del criminalmente trascurato (almeno in Occidente) Phantasy Star abbiano qualcosa da ridire.
il gioco resta identico a quanto proposto originariamente da Ryuichi Nishizawa, con un riuscito mix di esplorazione, piattaforme e avventura
Nella marmaglia dei fan torreggiano alti e massicci i ragazzi di Lizardcube, una software house fondata un paio di anni fa da gente che ama il Master System sul serio. Come faccio ad esserne certo? Basti pensare che il programmatore Omar Cornut è un uomo dai molteplici talenti, oltre ad essere il possessore di un cognome che non augureresti neppure al tuo peggior nemico. Porta la sua firma il Meka, storico e fenomenale emulatore di Master System; e se verso la fine degli anni Novanta vi siete sollazzati con Alex Kidd in Shinobi World sul vostro PC, probabilmente avete già un debito nei suoi riguardi. Del resto, il qui presente (nonché quasi omonimo) Wonder Boy: The Dragon’s Trap altro non è che una splendida opera d’amore, un remake che alza l’asticella per prodotti simili a livelli stratosferici e difficilmente replicabili, capace di incenerire con lo sguardo della penitenza di Ghost Rider tutte le presunte riedizioni in alta definizione che – da anni – sgomitano per trovare un posto nelle nostre ludoteche.
AMORE INFINITO
Immaginate ora che il gioco originale, di per sé perfetto e immortale, sia stato abbellito da una veste grafica favolosa, disegnata a mano con stile ed eleganza, lasciandone però intatta l’anima. Tanto che, volendo, con la semplice pressione di un tasto la nuova “mano di vernice” può essere messa da parte, rivelando il gioco del 1989. Senza interruzioni, in qualsiasi momento, con la possibilità di applicare finte scanline e altri aggiustamenti per rendere al meglio la resa a otto bit sulle televisioni figlie del “male”, ovvero tutte quelle senza uno schermo CRT.
Non si tratta solo di stile: il miglioramento grafico della nuova versione è un vero e proprio spettacolo tra fluidissime animazioni aggiuntive, parallasse ed effetti di luce; se come me faticate a digerire le rivisitazioni dei classici con grafica presumibilmente tirata a lucido come nel caso di The King of Fighters ‘94 Re-Bout, stavolta vi troverete con il cuore a casa.
il gioco vanta un nuovo sistema di salvataggio automatico, e non è più necessario interrompere l’azione per scegliere l’arma secondaria
Stessa cosa per l’audio: le iconiche tracce di Shinichi Sakamoto possono essere alternate a piacere ai nuovissimi arrangiamenti di Michael Geyre, una vera libidine acustica caratterizzata da un uso eccezionale degli strumenti. Il nuovo audio è generalmente ottimo, ma personalmente sono impazzito per l’uso dei violini durante l’arrivo a sorpresa (beh, chi il gioco lo conosce se l’aspetta puntualmente) di quella traccia storica lì, durante una caduta che non ho proprio voglia di spoilerarvi.
L’opera di Lizardcube, però, non si limita “solo” a migliorare – come mai nessuno avrebbe osato immaginare – uno dei migliori videogiochi a otto bit di sempre, ma si è fatta in quattro per rendere più fluida e godibile l’esperienza originale, con diversi accorgimenti più o meno nascosti. Grazie al nuovo salvataggio automatico non c’è più bisogno di annotare i vecchi codici per continuare la partita in un secondo tempo (sebbene funzionino ancora egregiamente, qualora li conservaste da qualche parte), né è necessario interrompere l’azione per scegliere l’arma secondaria più adatta alla situazione, adesso rapidamente selezionabile grazie ai tasti dorsali.
C’è anche un cambiamento nel sistema di carisma, un valore invisibile che originariamente misurava la disponibilità dei negozianti nei nostri confronti, decretando quali oggetti poter acquistare: ora viene prevalentemente incrementato da apposite pietruzze, non rinvenibili in giro, ed è diventato un aspetto legato all’end game, con livelli “dedicati” a ogni trasformazione che sapranno ricompensarvi con particolari amuleti, nel caso riusciate a resistere alla loro cattiveria. Raccoglieteli tutti e… no, non ve lo dico. Come ciliegina sulla torta, è possibile selezionare il sesso del protagonista, introducendo la bella Wonder Girl con tanto di sprite a otto bit; non cambia nulla rispetto alla controparte maschile, ma va bene così.
PER CONCLUDERE
Per il resto, il gioco resta quindi identico a quanto proposto originariamente da Ryuichi Nishizawa e la sua Westone nel 1989, con un riuscito mix di esplorazione, piattaforme e avventura, slegato dalla linearità che la natura a gettoni aveva imposto agli episodi precedenti. Le trasformazioni sono la chiave per raggiungere aree inizialmente precluse, un meccanismo che può forse apparire scontato agli amanti di Symphony of the Night (che, guarda caso, cita Dragon’s Trap nella sua introduzione), ma che – poco dopo la pubblicazione del primissimo Metroid – appariva freschissimo.
Le trasformazioni sono la chiave per raggiungere aree inizialmente precluse
Vi chiederete, ci sono dei difetti? Beh, conoscendo a menadito il gioco è possibile completare l’avventura in un paio d’ore correndo dall’inizio alla fine, ma tutto quello che il viaggio offre vale abbondantemente i venti euro richiesti. Per quella somma scaricate sulla vostra console preferita un caposaldo a otto bit che non pare invecchiato di un giorno, corroborato da una veste audiovisiva fenomenale che non solo trasforma il gioco in un cartone animato in movimento, ma che centra in pieno la sekaikan ideata e rappresentata sulla tavolozza del Master System da Westone quasi trent’anni fa. Ecco, mi sarebbe piaciuto vedere armi e armature rappresentate graficamente sul protagonista almeno nella nuova veste grafica, considerando che già lo sprite principale del precedente Wonder Boy in Monster Land mutava a seconda dell’equipaggiamento indossato, ma me ne farò una ragione.
Non mi è piaciuta – invece – la modalità difficile, che aggiunge l’odiatissima clessidra di Wonder Boy in Monster Land a un’avventura che non sa davvero di che farsene. Una volta che la sabbia virtuale si esaurirà, una parte dell’energia verrà intaccata: non proprio il massimo in un gioco che ruota attorno alla libera esplorazione e al backtracking. Probabilmente farà la gioia degli speedrunner, ma ascoltate il mio consiglio: anche se conoscete il gioco originale fino all’ultimo byte, giocatelo alla difficoltà normale, come mamma Westone l’ha fatto, almeno alla prima partita. Per le corse a rotta di collo c’è sempre tempo.
Wonder Boy: The Dragon’s Trap non prende 9.8 solo perché si tratta di un’avventura oggettivamente breve, oltre al fatto che, altrimenti, non saprei come trattare il prossimo Monster Boy and the Cursed Kingdom, qualora si rivelasse addirittura superiore. Parliamo, del resto, di due giochi a cui Nishizawa-san in persona ha concesso il suo appoggio, quindi il “rischio” di trovarci davanti a un altro capolavoro è concretissimo. Per ora Wonder Boy: The Dragon’s Trap è il più autentico e commovente tributo a un classico che io abbia avuto l’onore di giocare, tanto che l’ho comprato anche su Switch, perché lo devo ripassare fino allo sfinimento ovunque. Se amate i bei giochi di piattaforme di una volta e impazzite per la saga di Wonder Boy, raccomandarvelo è per me una formalità. Semplicemente lo dovete a voi stessi.