Alla base di Outlast II c’è tutto quel che è stato il predecessore: una fluida e terrorizzante esperienza in prima persona, con un grado di realismo grafico così elevato da sembrare un titolo ad alto budget. Outlast non lo era e non lo è neppure il suo seguito, com’è giusto sottolineare, e se è vero che il buon successo commerciale del predecessore si vede in ogni singola sequenza, con punte di genialità nel design visivo, Red Barrels è voluta rimanere nel più libero calderone delle piccole software house indipendenti, nel suo caso una dozzina di sviluppatori, pur senza dover più affrontare le ristrettezze quasi eroiche dell’opera prima (12 mesi senza alcuna fonte di finanziamento, per dirne una). Per lo stesso motivo si è presa il giusto tempo per realizzare il sequel, dal 2013 a oggi, approfondendo il background della saga con la mini-serie a fumetti The Murkoff Account (link al pdf), ottima per sviscerare meglio (ahr ahr) i punti di contatto fra i due titoli.
Dal canto suo, il sequel fa meglio praticamente in tutto: è molto più ambizioso e articolato nella trama, ancora una volta opera di J.T. Petty (già sceneggiatore, tra gli altri, del primo Tom Clancy’s Splinter Cell), e soprattutto riesce a esaltare le sue componenti più riuscite, tra orrore e silenziosità, adattandole a uno spazio ampio con stile e precisione tecnica. Non è un “more of the same“, dal mio punto di vista, ma Outlast com’era nei sogni dello sviluppatore.
IL MODO GIUSTO
Non credete a chi vi dice di aver giocato il primo capitolo, o anche la demo di Outlast II, senza provare particolare spavento: in questi casi, ammesso che l’interlocutore sia sincero, deve esserci per forza un problema di tempistica od opportunità intorno alla sessione, magari giocata di giorno e con troppi rumori di disturbo; in caso contrario è addirittura inumano pensare di resistere alle mille situazioni estreme poste da Red Barrels, sempre che si abbia il coraggio di giocarle nella placidità della notte o, al massimo, in una stanza buia con l’audio direzionale ben sparato nelle cuffie.
È addirittura inumano pensare di resistere alle mille situazioni estreme poste da Red Barrels, sempre che sia abbia il coraggio di giocarle nella placidità della notte
In alcuni casi sembra quasi di assistere a un rimbalzo di ispirazioni con Alien Isolation: ricordo un’intervista in cui Al Hope di Creative Assembly mi raccontava della propria passione per Outlast, per il talento nel provocare tensione ma anche nei dettagli usati nella realistica soggettiva, ad esempio nelle animazioni contestuali delle mani; è inutile aggiungere, in questo senso, che i livelli audio della videocamera di Outlast II hanno grossomodo la funzione del sonar di Alien, pur funzionando in modo ancora più interessante, e sono ancora più maniacali i dettagli per mantenere l’inquadratura perennemente in prima persona. Batterie e bende trovano posto nella giacca del protagonista, visionabili nell’unico e utilissimo gesto di controllarne il numero, posizionare la videocamera davanti a sé e mormorare l’obiettivo corrente, con credibili frasi contestuali. In teoria, una volta imparati i pochi e logici controlli (anche per sporgersi, arrampicarsi o strisciare), è possibile vivere l’intera esperienza senza indicazioni di tasti, obiettivi e tutorial, sadicamente immersi in un incubo in soggettiva quasi perfetto.
REALISMO D’ORRORE
Oulast II è un pochino più Alien Isolation anche nella maggiore articolazione degli scenari e nella varietà dei nemici, cosa peraltro non semplice trattandosi di un contesto relativamente realistico. Molto valida la loro intelligenza artificiale, almeno in un caso paragonabile a quella dello xenomorfo ed efficace, senza eccezioni rilevanti, nelle loro diverse reazioni alla nostra presenza, tra le più plausibili che mi sia capitato di trovare in un titolo fondato sulla silenziosità (e dunque pericolosissime, per apertura del cono visivo e portata del rilevamento sonoro). Non è un’esagerazione: anche in altri horror in prima persona si può parlare di stealth, ad esempio nei giochi di Frictional Games, ma Oulast II soddisfa il concetto in due prerogative particolarmente difficili da rispettare, ovvero le intelligenze artificiali e il legame sottile ma plausibile tra gameplay e verosimiglianza dell’azione.
I livelli audio della videocamera di Outlast II hanno grossomodo la funzione del sonar di Alien, con una trovata al tempo stesso verosimile e intrigante
Per il resto, i paragoni con i blockbuster che Red Barrels ha influenzato finiscono qui: nel corso del gioco non ci sarà alcuna arma con cui potrete difendervi, e l’azione sarà tutta un susseguirsi di fughe disperate ed esplorazioni silenziose, alla ricerca di risorse, semplici strumenti da concatenare od oggetti da spostare, linearissima nella sequenza degli scenari (connessi tra loro senza alcun caricamento) come in tante soluzioni obbligate. È vero, come temevo, che le più varie strutture di Alien Isolation o Resident Evil 7 hanno evidenziato la forzatura di un’ambientazione del tutto priva di strumenti di attacco/difesa, fossero anche le gambe di una sedia, quasi quanto nei giochi d’azione in cui di armi se ne trovano troppe. Non dico che Outlast II sarebbe dovuto diventare un’altra cosa, addirittura con crafting o sparatorie, ma solo che qualche piccola eccezione non avrebbe guastato alla credibilità della messa in scena.
VERSO LE LUCI DELL’ALBA
Dal mio punto di vista, quella appena fatta è una delle poche critiche che riesco a rivolgere al gioco, insieme ad alcuni passaggi trial & error dov’è impossibile, appunto, cavarsela senza morire almeno una volta, o altri in cui conta solo l’osservazione dei tanti script. In alcuni momenti avrei desiderato che Outlast II si trasformasse in un vero survival, e forse ne avrebbe avuto le potenzialità, ma le visioni o le stilosissime “transizioni visive” sono sempre arrivate a farmi cambiare idea, pensando al grado di dettaglio che avevo davanti e al fatto che Red Barrels continua a valutare benissimo ciò che è in grado di fare, senza buttarci sopra contenuti ingestibili o dispersivi. Il livello di scrittura è sempre alto, l’impatto grafico spesso impressionante, i passaggi di ambientazione addirittura geniali; magari ho notato alcuni PNG ripetuti eccessivamente o qualche piccolissimo bug nelle animazioni, ma si tratta davvero di piccolezze di fronte al livello della realizzazione complessiva.
I due registri del racconto si alternano con invenzioni visive spesso geniali
Per quel che riguarda la trama, tutto ciò che va oltre l’incipit equivarrebbe a spoiler: guarderemo l’intera esperienza dagli occhi di Blake Langermann, un cameraman che si trova nel nord dell’Arizona con la moglie giornalista, Lynn, per indagare sulla morte in circostanze misteriose di una donna gravida con un nome – Jane Doe – che puzza d’inganno a un miglio di distanza. Immediato, e quindi descrivibile senza danno, il passaggio tra due registri del racconto: il primo è quello dell’orrida realtà, in uno scontro religioso tra bifolchi che reinterpretano a modo loro le sacre scritture, debitore del (miglior) cinema di Rob Zombie e di tanti ottimi horror occidentali, dai capolavori come “Shining” e “Non Aprite Quella Porta” fino a incubi meno conosciuti come “The Descent“. Outlast II non è al livello di tutte queste opere, sia chiaro, ma il fattore immersione lo rende comunque imperdibile per gli amanti dell’horror videoludico.
Il secondo registro è più difficile da descrivere senza spoiler: vi basti sapere che il legame dei protagonisti con le vicende è più forte di quel che sembra, e che in qualche modo ho colto nel segno parlando, in questo editoriale, contemporaneamente di Outlast II e dei film d’orrore orientali (per mio piacere, tra l’altro, e non per indizi di qualche genere). Contentissimo di averla azzeccata.
Outlast II riesce a superare il predecessore praticamente in tutto: è più vasto e dettagliato nel raccontare la trama, quasi perfetto in termini di intelligenze artificiali (almeno, per le brutali prerogative dei suoi nemici), più articolato nella struttura dei livelli e spesso geniale nelle invenzioni visive. In diversi passaggi avrei desiderato che diventasse un survival più vario, proprio in virtù del notevole uso dell’Unreal Engine 4 e delle buone idee di gameplay, e che durasse qualcosa in più delle otto ore di una notte nel nord dell’Arizona (ampliate almeno di un paio, nel mio caso, alla ricerca di dettagli della trama). Sono state tra le ore più terrorizzanti degli ultimi anni, però, e mi va benissimo anche così.