Le avventure narrative hanno il merito di espandere spesso i confini del medium, proponendo storie generalmente scritte meglio del solito e piegando gli schemi di interazione classica per offrire esperienze uniche, magari non ricchissime di varietà, ma davvero coinvolgenti. Kona, opera prima dei canadesi Parabole, si inserisce in un mercato che negli ultimi anni ha visto il genere proliferare grazie a una parabola di titoli davvero eccellenti, da Gone Home a Firewatch, passando per i suggestivi Everybody’s Gone to the Rapture ed Ether One, e prova a dire la sua inserendo una connotazione survival e una matrice di stampo investigativa nella classica struttura di esplorazione e interazione con l’ambiente. Nei panni del detective Carl Faubert, infatti, viaggiamo alla volta di Atamipek Lake, nel profondo nord del Quebec, per sbrigare un caso apparentemente semplice ma che, in realtà, ci porta ai confini della realtà, impelagati in una vicenda molto più pericolosa e inquietante di quanto non ci si possa aspettare all’inizio.
OPEN WORLD CHIUSO
Sin da subito Kona affida la narrazione a una voce fuori campo onnisciente, che porta inevitabilmente alla mente The Stanley Parable per il modo in cui guida l’avventura e determina il modo in cui ci comportiamo; il parlato non ha le connotazioni metareferenziali dell’attore più interessante della storia dei videogiochi, ma resta una presenza costante che, in più di un’occasione, rivela indizi in maniera più efficace del gameplay. Il prendere in prestito elementi già visti in altri giochi è qualcosa che Kona riesce a fare in maniera onesta e tutto sommato organica, nella misura in cui le dinamiche survival contro il freddo rappresentano una (netta) semplificazione di quanto visto in The Long Dark e il perdersi in un ambientazione naturalistica affascinante arriva da Firewatch, così come l’indagine sulla vita degli abitanti del posto implicati in una vicenda dai tratti apocalittici è, anche nelle dinamiche, chiaramente ispirata a Everybody’s Gone to the Rapture. Insomma, se siete abituati a destreggiarvi tra le avventure narrative in prima persona, Kona segue un iter abbastanza lineare e conosciuto, tanto che inizialmente la dinamica della resistenza al freddo e allo stress della situazione, nonché la varietà di situazioni in cui ci troviamo nella prima mezzora, sembra anche di buon auspicio. La svolta macabra della narrazione una volta giunti all’emporio, un paio di colpi di scena iniziali e una scrittura di buona fattura sono elementi sufficienti per renderci curiosi di sapere su cosa stiamo indagando; purtroppo, insieme alla ricostruzione ambientale e lo stile anni ’70, rappresentano gli unici slanci di un’opera che diventa presto una parabola discendente verso la mediocrità.
La sospensione di incredulità, vitale per una produzione del genere, viene calpestata di sovente
GAMEPLAY CONGELATO
L’incapacità di riuscire a conquistare il giocatore dal punto di vista del coinvolgimento di natura estetica, ovviamente, non riesce ad anestetizzare il giudizio riguardo le meccaniche di Kona, che nel loro essere estremamente derivative si dimenticano un mantra importante: alimentare la motivazione attraverso il gameplay. Per lunghi tratti, infatti, è chiaro che il compito del protagonista potrebbe dirsi finito e avrebbe tantissime buone ragioni per abbandonare la sua indagine. A venire in soccorso dell’innaturale caparbietà nello sposare una causa evidentemente non propria (e sicuramente non nostra), ci pensa il narratore, a sottolineare la professionalità e la serietà di Faubert dovute a un’educazione di tipo militare. Si tratta solo di uno dei diversi episodi in cui diventa evidente che l’esperienza offerta da Kona è soltanto apparentemente libera come l’esplorazione lascerebbe intendere. Non ci sarebbe neanche niente di male, visto che la linearità è un canone di genere, ma dovendoci costruire un’indagine sopra, il senso del mistero diventa ben presto completamente farlocco e forzato, perché è il gioco stesso a condurci sempre verso gli indizi principali.
Ci sono i rari momenti in cui Kona richiede un minimo di reazione e riflessi
A contribuire a un’esperienza farraginosa e mai coinvolgente, infine, ci sono i rari momenti in cui Kona richiede un minimo di reazione e riflessi. Le sequenze action sono pensate male e realizzate peggio, a causa di un’interfaccia che non aiuta mai la gestione di inventario, armi e consumabili, e, in generale, una cattiva disposizione di questi elementi nella mappa. Il culmine dell’approssimazione in termini di game design, a mio avviso, è proprio la sequenza finale, dove Kona mostra tutta l’inesperienza di un team giovane, incapace di dare un senso di unità a una produzione dal concept interessante, ma rovinata da una realizzazione approssimativa.
L’opera prima di Parabole è la dimostrazione che avere una storia da raccontare e un setting affascinante non bastano a rendere un’avventura narrativa in prima persona avvincente. A far crollare un progetto nato sotto i migliori auspici è una generale approssimazione nel rendere organiche le dinamiche di gameplay ereditate da altri titoli del genere e nel creare, sulla base di quelle (e non di una scrittura a tratti anche buona), un’esperienza coinvolgente e gratificante. Certo, se avesse avuto un comparto tecnico quantomeno sufficiente, forse Kona sarebbe stato salvato dal contorno, dall’ambientazione e dal suo look 70s, ma la frustrazione che deriva dall’esplorazione di Atamipek Lake e dintorni mi rende difficile consigliarlo anche agli amanti del genere.