Un terribile vuoto: non trovo altro termine per esprimere quella strana sensazione che provo all’altezza della bocca dello stomaco. I titoli di coda scorrono lenti, insieme a qualche immagine evocativa dell’avventura appena affrontata, e un buco nel petto comincia a farsi prepotentemente largo. Devo imparare a conviverci, almeno per qualche giorno; giusto il tempo di metabolizzare gli eventi vissuti dal mio alter-ego videoludico. Questa voragine che mi scava nel torace, fastidiosa e contemporaneamente piacevole, è il mio personalissimo “bollino di garanzia”, che compare puntualmente alla fine di ogni opera che mi colpisce particolarmente e che mi fa sentire in qualche modo incompleto. Se vi dico questo mio piccolo segreto è semplicemente perché Torment: Tides of Numenera è riuscito nell’intento di pugnalarmi al petto e lasciarmi come un essere vuoto a fissare uno schermo nero, come se al momento non avesse senso giocare ad altro.
MORTE E RINASCITA
L’ultimo nato in casa inXile carica sulle proprie spalle un gargantuesco macigno: portare lo stesso nome del capolavoro partorito da Chris Avellone e Colin McComb nel lontano 1999. Essere il seguito, seppur spirituale, di Planescape: Torment equivale a sostare perennemente sotto lo sguardo giudicante di migliaia di appassionati di CRPG, pronti ad alzare torce e forconi alla prima sbavatura, eppure Brian Fargo non si è lasciato intimorire. Come se il suo curriculum non fosse sufficiente per meritarsi la nostra fiducia, e dopo aver anche dimostrato di saper ancora raccontare ottime storie (ma di non saper gestire le attività di localizzazione) con Wasteland 2, il game designer californiano ha tolto ogni dubbio sulle sue capacità di immergere il giocatore in universi lontanissimi e farlo sentire comunque a casa.
Tides of Numenera è riuscito nell’intento di pugnalarmi al petto e lasciarmi come un essere vuoto a fissare uno schermo nero
Non è però solo il background a rendere l’uso di Numenera un’idea vincente, ma anche le meccaniche di gioco, decisamente più snelle e intuitive rispetto a D&D: con solo tre statistiche, tre classi e una manciata di abilità da tenere in considerazione, il giocatore può interamente dedicarsi all’aspetto ludico, lasciandosi alle spalle una gestione fin troppo macchinosa del proprio avatar e del party al suo seguito.
NARRATIVA DIGITALE
Torment: Tides of Numenera, nonostante gli sforzi profusi nel richiamare spesso e volentieri l’opera di Black Isle Studios grazie a temi ricorrenti come l’amnesia, l’importanza dei segreti e lo sfruttamento di certe figure in qualche modo ricorrenti, comincia finalmente a prendere una propria, fortissima identità quando si parla dei combattimenti. Ho sempre fatto fatica a digerire la necessità che aveva Planescape di piazzare il giocatore davanti a estenuanti sessioni in cui era necessario macinare decine di nemici per proseguire nell’avventura; quelle meccaniche poco stimolanti e fin troppo ripetitive erano il frutto di un periodo in cui i videogiochi “dovevano” per forza di cose offrire anche una componente che vedeva le mazzate come protagoniste. Fortunatamente, ciò non è affatto vero per i tempi odierni: gli scontri obbligatori di Tides of Numenera si contano sulla dita di una mano, e c’è quasi sempre il modo di superare senza utilizzare la violenza i vari ostacoli che si parano innanzi al protagonista.
È difficile classificare Tides of Numenera come un gioco di ruolo classico
ANAMNESI E TERAPIA
Avevo precedentemente accennato ai vari temi ricorrenti che Tides of Numenera ha in comune con Torment, e l’esempio più lapalissiano riguarda il protagonista: il Last Castoff (letteralmente L’Ultimo Scarto) è il “vestito” appena dismesso del Dio del Cambiamento, un essere antico e potentissimo che, grazie ai Numenera (gli artefatti provenienti da mondi passati), trascorre l’eternità a creare nuovi corpi attraverso cui vivere, sperimentare e accrescere i propri poteri, fino al momento in cui decide di “cambiarsi d’abito” lasciando così nel Nono Mondo un nuovo individuo dalla neonata coscienza e totalmente ignaro delle azioni da lui compiute negli anni precedenti. Oltretutto, essendo comunque nati dalle mani di un “Dio”, i vari Castoff, nonostante le loro enormi diversità, hanno in comune la stessa immortalità del loro creatore. Ciò non sarebbe nemmeno così male se non fosse per un’inarrestabile entità oscura, chiamata The Sorrow, che pare dare la caccia alla stirpe del Dio del Cambiamento con lo scopo di cancellarla dall’universo.
L’amnesia è il fulcro centrale di Tides of Numenera, e non solo risulta un potentissimo mezzo per accompagnare il giocatore attraverso un mondo così particolare come quello creato da Monte Cook, ma è anche un ottimo espediente per far nostre fondamentali nozioni sul passato sia del nostro alter-ego digitale, sia dei nostri compagni di viaggio che impareremo, seppur lentamente, ad amare. I così detti “Companion”, difatti, almeno inizialmente appaiono inferiori rispetto a quelli incontrati vestendo i panni del Nameless One: ho passato la prima metà dell’avventura a rimpiangere Morte e le sue battute al vetriolo, Dak’kon e il suo profondo concetto di onore e addirittura Ignus e la sua interminabile sofferenza; tuttavia, una volta superata la metà gioco ho finalmente imparato ad apprezzare (e, in qualche modo, a voler bene a) Erritis con la sua assurda battaglia interiore, Callistege e il suo dramma personale e Rhin, piccola bambina del tutto inutile sul campo di battaglia, ma che mi ha donato emotivamente le gioie maggiori.
Giocare con l’ultima creatura di Brian Fargo mi ha emozionato, divertito, fatto arrabbiare, stupito e persino commosso
I compagni di viaggio in realtà sono ben sei, ma potendo viaggiare con solo tre di loro ammetto di conoscere ben poco dei restanti. L’anima di Tides of Numera, tuttavia, è anche questa: in una sola partita è letteralmente impossibile vedere tutto. Ho completato tutte le quest secondarie disponibili, ma nonostante ciò non ho trovato risposta a qualche domanda, e per una visione d’insieme temo sarà necessario affrontare nuovamente l’intera avventura compiendo scelte differenti.
SEMPLICI TORMENTI
Se a livello di qualità di scrittura (a patto di masticare bene un inglese poco comodo), di storie raccontate e di carisma dei vari personaggi Tides of Numenera difficilmente trova concorrenti, ciò purtroppo non è affatto vero per la difficoltà: le prime ore ci fanno sudare, e ogni riga di dialogo che richiede un check su qualche abilità o statistica va scelta con estrema attenzione; già verso la metà dell’avventura, però, il nostro avatar e la sua combriccola risultano talmente potenti da abbattere ogni senso di sfida, a livello sia dei – pochi – combattimenti, sia delle tante avversità che supereremo in automatico grazie alle nostre caratteristiche.
Questa sorta di sbilanciamento in corsa non riesce comunque a influire negativamente sull’avventura, a patto di approcciare fin da subito Tides of Numenera come un’immensa opera letteraria, con tanto di brevi sessioni in tutto e per tutto simili ai mitici librogame tanto cari a noi vecchietti. Non riesco a parlare male di Tides of Numenera in nessun modo, e il motivo per cui trovate un bel votone qua sotto, nonostante i difetti sopra elencati, è che giocare con l’ultima creatura di Brian Fargo mi ha emozionato, divertito, fatto arrabbiare, stupito e persino commosso, e sono convinto che titoli del genere non siano mai abbastanza. Oltretutto, incredibilmente, Tides of Numenera si lascia godere appieno anche joypad in mano, a patto di avere uno schermo abbastanza grande da riuscire a leggere le migliaia di righe di testo che ci accompagnano per più di cinquanta ore di gioco.
Ci sono voluti quasi due decenni, un nuovo regolamento scritto da Monte Cook, una vittoriosa campagna Kickstarter e mostri sacri dal calibro di Brian Fargo, Colin McComb e Chris Avellone, ma finalmente Planescape: Torment ha il suo degno erede. Speriamo solo di non dover aspettare altri vent’anni per giocare al prossimo.
Lo ammetto: ho cominciato a giocare a Tides of Numenera con estremo timore, dato l’amore viscerale che provo per Planescape: Torment, eppure ci sono volute poche ore per dimostrare che il titolo inXile non ha nulla da invidiare al suo predecessore, e che – anzi – riesce a ritagliarsi una forte e personale identità grazie a qualche scelta curiosa ma vincente, come l’aver abbracciato l’ambientazione e il regolamento scritto da Monte Cook, la possibilità di non combattere quasi per nulla e il non nascondere in alcun modo la propria anima da opera letteraria interattiva. Certo, far scendere il capolavoro Black Isle Studios dal trono è impossibile, ma mettendo da parte la nostalgia e i meravigliosi ricordi legati a quel periodo storico, questa nuova creatura scritta da McComb, Fargo e Avellone si eleva a degno erede di quello che, a conti fatti, resta uno dei giochi di ruolo più importanti della nostra storia.