La recensione di un titolo come The Division non può non partire dallo sviluppo travagliato che ha vissuto il titolo di Ubisoft nelle tre piattaforme di riferimento, ovvero PC, PS4 e Xbox One. A un certo punto dell’anno scorso, quando emerse dalla bocca di un insider che lo stato dei lavori era ben lungi dall’avere una deadline definita, ha cominciato in me a serpeggiare il pensiero che The Division sarebbe inesorabilmente finito in qual calderone di prodotti vittime del loro stesso hype; magari senza capitomboli clamorosi come hanno fatto altri videogiochi passati alla storia per le ragioni più sbagliate – vedi l’ormai celebre Alien Colonial Marines (game over man, game over) – ma comunque perdendo la scia dell’entusiasmo alimentato da Ubisoft dal giorno dell’annuncio in avanti. E invece, non solo The Division si è rivelato un titolo davvero affascinante e ben costruito, ma ha avuto anche la fortuna (sempre che di fortuna si tratti) di uscire in un momento perfetto, di quelli che accadono solo quando i pianeti si allineano e le congiunture astrali remano tutte nella stessa direzione. Un giocatore di Destiny come me, e come molti altri, ha trovato nel titolo di Ubisoft la ragione per riprendere in mano un MMO, dopo che il figliolo di Bungie e Activision aveva ormai dato il massimo e cominciava a palesare segni inequivocabili di ripetitività compulsiva.
THE DIVISION, MANHATTAN E LA GENTE SEMPLICE
Piccola premessa. Durante il viaggio redazionale per le innevate strade di New York abbiamo partorito non solo una serie di Live deliranti (che trovate sul nostro canale Youtube, nel caso), ma anche quattro diari di viaggio in cui Claudio, Mario e Davide, assieme al sottoscritto, hanno descritto il loro impatto con The Division: se ve li siete persi, è il caso di rimediare, visto che in questa recensione darò per scontate alcune cose dette qui, qui, qui e qui. Fatto? Bene, possiamo proseguire felicemente oltre e, quindi, sottolineare fin da subito come The Division sia un MMO open world per certi versi simile a Destiny, ma per altri assai differente, tanto che un paragone diretto tra i due mi sembra più di un azzardo. In Destiny, per dire, il sistema di crescita del personaggio è più legato al grinding; inoltre, in The Division è impossibile incontrare altri giocatori in giro per la città, a meno di non affidarsi al sistema di matchmaking. Nel PvE di Ubisoft, quindi, viene meno istintivo farsi distrarre da eventi esterni a quelli previsti dagli sviluppatori, laddove Destiny consentiva di aggiungersi al volo a un gruppo incontrato per caso o, semplicemente, di condividere con esso parte della strada, abbattendo allegramente schifezze dell’Alveare o robotici Vex. The Division è un titolo se vogliamo più adatto ai lupi solitari, anche se la condivisione dell’esperienza tramite co-op o PvP gioca comunque un ruolo importante, come vi racconterò a breve.
The Division è un MMO open world per certi versi simile a Destiny, ma per altri assai differente
IN VIAGGIO VERSO L’ENDGAME
Dall’inizio al livello 30, momento in cui interviene l’endgame, il viaggio è bello lungo e, come detto, può essere percorso in solitaria, oppure in compagnia. La New York di The Division pullula di cose da fare, dalle missioni della campagna a quelle secondarie, oltre ai cosiddetti Incontri, che altro non sono che piccoli obiettivi da portare a termine per accumulare qualche premio e, soprattutto, i punti necessari ad espandere la base nei tre settori primari (medico, tecnologico e sicurezza). Abbastanza intuitivamente, migliorare la propria casa madre significa sia apprendere abilità, talenti e vantaggi, sia accedere a nuove possibilità, come modificare alcuni parametri di armi ed equip in cambio di vile denaro o avere accesso a venditori avanzati, laddove acquistare materiale “pettinato”. Non manca nemmeno una vagonata di cose accessorie, come la raccolta di collezionabili di varia natura che contengono informazioni su quanto accaduto durante l’epidemia di vaiolo che ha devastato la città, piuttosto che escursioni sporadiche all’interno di zone ancora contaminate, accessibili a patto di indossare una maschera protettiva adatta allo scopo.
Mentre io me la spassavo su console, il nostro ineffabile Mario Baccigalupi ha preso armi e bagagli e si è trasferito nella New York parallela in salsa PC. Stando alle sue parole, sul suo sistema di casa (i5 4670K, 980 Ti, 16 GB di RAM) The Division oscilla tra gli 80 e i 45 frame al secondo con tutto – ma proprio tutto – tirato al massimo, comprese le robe di Nvidia (HBAO per occlusione ambientale e PCSS per ombre ancora più morbide e sfumate) e il dettaglio oggetti e distanza di visualizzazione settati al 100%. Il gioco supporta anche G-Sync, surround, eventuali SLI, Dynamic Super Resolution (renderizza in 2,3 o 4K, e poi downscala) e, ovviamente, l’ultra risoluzione vera e propria… niente male, no? Marietto, poi, sostiene che la versione PC sia leggermente più facile rispetto a quella console, probabilmente per la sua abitudine al binomio mouse + tastiera, che quando si tratta di sparare è preferibile al joypad di una console.***
I quartieri della Manhattan di The Division sono divisi per livello. Va da sé che mettere il naso in luoghi sopra le nostre possibilità è la cosa peggiore da fare. Gli unici luoghi davvero sicuri sono i rifugi (ce n’è uno per ogni zona), laddove fare rifornimento e attivare sulla mappa le quest secondarie presenti nel circondario. In ogni occasione in cui si spara c’è la possibilità di recuperare un drop interessante, anche se le cose migliori sono evidentemente appannaggio delle missioni principali, in particolare se affrontate a livello difficile (nel qual caso il matchmaking è l’unica via per la salvezza, visto che i nemici sono meglio corazzati e l’intelligenza artificiale si fa davvero bastarda). A proposito dei nemici, sono rimasto personalmente sorpreso dal modo in cui tendono ad affrontarci, cercando perfino di mettere in pratica sporadiche tattiche di aggiramento, sia nelle zone aperte, sia all’interno degli edifici, qualora il level design lo consenta; nulla di particolarmente raffinato, sia chiaro, ma per lo meno non ci troviamo di fronte al solito nugolo di soldati che abusa delle coperture (o almeno non sempre) o che attacca a testa bassa (o almeno non sempre). A voler cercare il pelo nell’uovo si potrebbe sottolineare che alla lunga i nemici tendono a ripetersi e che è mancata un po’ di voglia di osare per quanto riguarda i boss, di fatto nemici “umani” semplicemente più incazzati e resistenti. Destiny, da questo punto di vista, è nettamente un passo avanti, ma va anche detto che l’ambientazione “into the real world” di The Division non aiuta. A ogni modo, solo in una delle ultime missioni mi sono trovato di fronte a qualcosa di nettamente “diverso” (non dico altro per non spoilerare). Poco male, comunque, perché gli scontri a fuoco danno sempre una gran soddisfazione, a prescindere da quale parte di The Division si stia affrontando e del nemico che si ha di fronte. Semmai, l’unica vera pecca riguarda i punti di respawn, che hanno spesso la brutta tendenza di collocare la resurrezione o proprio in mezzo al marasma, o a centinaia di metri di distanza; certo, nulla che non possa essere corretto rapidamente con una patch, ma che al momento rappresenta un fastidio non da poco.
VAI AVANTI TU, CHÉ MI VIEN DA RIDERE
Una volta visto tutto quello che c’è nel PvE, cosa resta da fare in The Division? Beh, un botto di altre cose, a cominciare dalle missioni giornaliere, che forniscono materiale di alto livello e una moneta diversa da mettere nel portafogli per fare acquisti di pregio presso un nuovo venditore nella base. I loot più importanti si raccolgono nelle daily affrontate a livello Molto Difficile: sono momenti in cui vengono messe alla prova le nostre capacità personali e la coordinazione del gruppo (non azzardatevi MAI a lanciarne una se non siete accompagnati da altri tre giocatori BEN equipaggiati). Più avanti verrà messa a disposizione della community anche la prima Incursione, un vero e proprio raid che potrà essere percorso con soddisfazione solo dai team più affiatati, e sulla cui bontà torneremo a discutere dopo la pubblicazione.
Passeggiare nella Zona Nera è un continuo valzer di tensioni
LA COERENZA DEL LORE
Una delle cose più belle di The Division è la coerenza del mondo, delle situazioni, del background e del lore. Come è noto, la premessa narrativa è l’esplodere di un’epidemia di una forma di vaiolo attraverso lo scambio di banconote tra la popolazione durante il Black Friday, il giorno tutto americano degli sconti folli. La storia principale di The Division fornisce gli elementi base per comprendere al meglio l’antefatto, ma sta alla voglia di esplorare del giocatore il reperire le informazioni necessarie ad avere un quadro più completo possibile. Tutti gli elementi, anche quelli accessori, hanno una collocazione ben precisa all’interno dell’universo costruito da Ubisoft; persino l’estrazione del loot dalla Zona Nera, un luogo ancora a forte rischio virus, si basa su un pretesto credibile come la necessità di decontaminazione degli oggetti ivi recuperati (da qui l’impossibilità di varcare i cancelli tenendoli nello zaino).
Un contributo importante all’immedesimazione è fornito da un comparto tecnico che ha quasi del miracoloso, se pensiamo al fatto che The Division è un open world a tutti gli effetti e che i grafici del team di sviluppo non hanno potuto lavorare di fantasia, ma sono stati costretti a replicare le fattezze di una città realmente esistente. Come ho scritto nel diario del giorno #4, l’atmosfera che permea tutto il gioco è estremamente attenta e rispettosa dell’immaginario che noi tutti abbiamo di uno dei luoghi più iconici degli Stati Uniti. Nonostante il dramma causato dall’epidemia, la New York di The Division mantiene un fascino unico e, in molte cose, paragonabile a quello della città reale. In questo ha una parte in causa la buona resa grafica, che raggiunge vette altissime al momento in cui si prendono in considerazione gli eventi atmosferici dinamici o il ciclo giorno/notte, e che pecca solo quando l’occhio si sofferma su qualche sporadico fenomeno di bad clipping. Poco male, visto che il frame rate è stabilmente fisso sui 30 fps su console e può comodamente raddoppiare su PC (vedi box), a patto di avere sotto al cofano un sistema opportunamente carrozzato.
Chiudo con due righe a proposito della localizzazione. Claudio, che è uno che gioca in inglese “a prescindere” ed è sempre molto critico a riguardo, non ha gradito granché. Io, che sono un po’ più di bocca buona, mi spingo a dire che non ho notato grandi strafalcioni né di traduzione, né di interpretazione: le voci dei personaggi principali fanno bene il loro lavoro, mentre quelli di contorno non sono così male da far storcere il naso e rompere irrimediabilmente l’atmosfera.
The Division è un vero spasso, sia giocato da soli, sia in compagnia. Certo non siamo di fronte a un titolo “mordi e fuggi”, ma a un vero e proprio viaggio che richiede abnegazione e voglia di lasciarsi trasportare. La New York di Ubisoft è coerente con le premesse narrative e pullula di angoli da scoprire, da assaporare e da esplorare meticolosamente. La strada che porta verso l’endgame si percorre senza annoiarsi mai, ancor di più se si ha la fortuna di andare in perlustrazione con altri tre amici (ma anche con quelli trovati via matchmaking). Affrontare la Zona Nera, poi, è una questione di tensione cagnesca che pochi altri videogiochi hanno saputo regalare prima d’ora. A voler trovare per forza cose che non vanno si potrebbe dire che la poca varietà dei nemici rischia di stancare sulla lunga distanza, e che i punti di respawn “rotti” sono al momento un problema serio, in particolare durante gli eventi avanzati come le daily. Considerata la piega che aveva preso The Division lo scorso anno, quando alcune voci avevano messo più di una pulce nell’orecchio sulla bontà del prodotto finale, direi che c’è comunque di che gioire.