Scrivere la recensione di Layers of Fear non è un’operazione semplice. Le caratteristiche da descrivere non sono poi molte, e soprattutto i contenuti del gioco di Bloober Team possono costituire spoiler dall’inizio alla fine, complice la sua struttura e il modo di narrare il racconto. Chi, dunque, non vuole nemmeno la più piccola indicazione si diriga in zona commento, dove mi riferisco al livello qualitativo senza troppi fronzoli o spiegazioni. Qui sotto, invece, trovate un’analisi comunque priva di eccessi descrittivi, a fronte di un gioco dalla peculiare personalità, composto da tantissime trovate visive e da un impianto tecnico di notevole livello, eccellente nella rappresentazione estetica come nella fruizione della storia. E gli spaventi non mancano, meno profondi di altre esperienze ma comunque ben architettati, a patto di giocare al buio con l’inquietante audio di Layers of Fear sparato negli auricolari. Se accendete la luce non vale.
P.T. DEL SETTECENTO
Tra le ispirazioni letterarie troviamo autori ricorrenti nelle produzioni di questo genere, come Edgar Allan Poe – in particolare, da “La Caduta di Casa Usher” – e H.P. Lovecraft – con un sacco di simpatici roditori a ricordarci “I topi del muro”, e non molto altro. Se vogliamo, poi, una delle strade maestre può essere individuata nella citazione d’apertura, con una frase de “Il Ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde e con la centralità assoluta di un dipinto all’interno della trama e, a ben vedere, anche dello schema di gioco.
Tra le ispirazioni del gioco troviamo Oscar Wilde, Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft
Il riferimento più originale, però, è senz’altro quello più sfumato ad alcuni passaggi della pittura e della vita di Francisco Goya, geniale ispiratore dei movimenti espressionisti del ‘900, e in particolare alla fase delle “Pitture Nere”, in cui l’artista dipinse una serie di famosissimi e inquietanti affreschi sulle pareti della sua abitazione. I nostri panni sono proprio quelli di un pittore, e tutta l’esperienza è racchiusa nella casa dove il protagonista e la famiglia – una moglie musicista e la figlioletta – hanno vissuto momenti di felicità, di declino e, dopo una serie di fatti tutti da scoprire, di profondo e indicibile orrore. Una casa letteralmente infinita.
La struttura di Layers of Fear può ricordare per sommi capi il concept di P.T., l’ormai leggendaria demo di Kojima per il suo sfortunato (nel senso che non vedrà mai la luce) capitolo di Silent Hill, con gli ambienti che continuano a ripetersi in una sorta di labirinto domestico. Le invenzioni si fanno sempre più complicate e disturbanti, e le mutazioni non avvengono solo al passaggio da stanza a stanza, ma anche voltandosi di nuovo verso una scena, intorno a noi o anche in alto, per scoprirla trasfigurata in qualcos’altro (o fare un bel salto sulla sedia, in talune occasioni).
Disegni, scritte, bambole inespressive e visioni assortite compaiono dove prima non c’era nulla
Disegni, scritte, bambole inespressive e visioni assortite compaiono dove prima non c’era nulla, e si affiancano a scacchiere che si ricompongono da sole, percorsi in continuo movimento e a diversi stilemi dell’orrore classico, come quello a tema infantile, in un gioco che ha nella realizzazione tecnica uno dei suoi più validi ingredienti. La ricostruzione di stanze e arredi d’epoca è eccellente, e tante visioni si basano sulla manipolazione della fisica di gioco, usata in modo creativo ma comunque legata alle scelte del team di sviluppo, più che al controllo del giocatore.
A noi è lasciata la possibilità di aprire cassetti, armadi o di scansare qualche oggetto, attraverso una struttura che ricorda i giochi di Frictional nell’intuitiva relazione con l’ambiente, ma se ne distacca definitivamente nei meccanismi per incutere terrore, così come nella sostanza dell’orrore stesso. Layers of Fear è un pochino più gentile con le vostre coronarie, al di là del fatto che anche lui è in grado di costruire la tensione passo dopo passo, senza fretta, per poi colpirci a tradimento con il climax delle visioni. È simile il ricorso a enigmi poco cervellotici, in questo caso conditi da depistaggi abilmente architettati e da soluzioni che, in molti casi, non sono legate ad alcun colpo di genio, e magari sottendono semplicemente al movimento della visuale, o comunque a un elemento ben visibile sulla scena.
LA QUINTA DEL SORDO
Layers of Fear va considerato prima di tutto un’esperienza sensoriale, più che un gioco in senso classico, una storia dell’orrore quasi priva di sfida ma che, almeno a mio parere, val la pena di farsi raccontare. A tratti sembra di trovarsi in una sorta di Stanley Parable virato al buio più profondo dell’anima, ché invece di farci fuggire da una trama lineare ci porta a percorrere liberamente il nostro incubo di perdizione, in una forma ogni volta lievemente diversa. Gli obiettivi rimangono gli stessi, elementari eppure profondamente simbolici, mentre cambia la concatenazione delle stanze e, così, di visioni e mutamenti nell’ambiente, non tanto per una vera rigiocabilità ma per la diversa sequenza delle scoperte da giocatore a giocatore, anche in termini di biglietti, foto e altre tracce di vita quotidiana. Il tutto per circa quattro ore di gameplay, un filo più sottotono nei pressi del finale ma per il resto pregne di tutto quel che serve. Follia, sangue ed eterna condanna.
L’opera prima di Bloober Team è un’avventura horror dalle fattezze molto raffinate. Probabilmente non incontrerà allo stesso modo i gusti degli appassionati d’orrore, ma si distingue ottimamente nel design, nella cura visiva e persino nell’ottima recitazione dei dialoghi (di un unico attore, il già apprezzato Erik Braa, nei panni del protagonista). La storia viene narrata attraverso la concatenazione non lineare di stanze, documenti e terribili visioni, e potrebbe ricordare a qualcuno una sorta di estensione del concept di P.T., comunque più definita in termini di trama e suggestioni. Non c’è una vera sfida nel gameplay, la durata è scarsa e alcune trovate iniziano a ripetersi nei pressi del finale, ma si tratta comunque di un’opera coesa, ben ideata e eseguita con la giusta misura, senza cercare di dilatare eccessivamente la sua labirintica sostanza.