Gorogoa - Recensione

iOS PC Switch

Quando Ivan mi ha assegnato la recensione di Gorogoa devo ammettere che non ne sapessi troppo. Le mie uniche informazioni riguardavano il suo essere un puzzle game dall’animo surrealista, disegnato a mano ed edito da Annapurna Interactive, la sussidiaria della casa produttrice cinematografica americana (Zero Dark Thirty, Her e American Hustle, nel suo portfolio) il cui approccio ai videogiochi non è finora stato banale, visto che ha permesso l’arrivo sul mercato di What Remains of Edith Finch (uno dei miei titoli preferiti dello scorso anno) e che ha già ampiamente attirato la mia attenzione per il prossimo futuro con The Artful Escape e Donut Country. Insomma, diciamo che se i californiani hanno reputato interessante l’opera di Jason Roberts, di sicuro non mi sarei trovato davanti qualcosa di banale. Non avevo minimamente previsto però di restare senza parole di fronte ai titoli di coda, e ritrovarmi in difficoltà a dover raccontare la mia esperienza. Gorogoa dura circa due ore al primo playthrough, ma non sono sufficienti a comprenderne davvero la visione. Dopo quarantotto ore di dubbi, l’unico modo per sbloccarmi e parlarvi del titolo è stato rigiocarlo, soffermandomi sui dettagli, e la situazione si è fatta un po’ più chiara.

ALLA RICERCA DI GOROGOA

Partiamo dal principio. Cos’è Gorogoa? Un puzzle game che è un po’ l’incontro tra un quadro di Magritte, un libro pop-up e il gioco del 15, e dove emerge latente una tendenza alla letteratura cosiddetta ergodica, ovvero quei romanzi dove la forma fisica influenza la narrazione e costringe l’utente a utilizzare i materiali forniti in maniera creativa (piegare, girare, scoprire il testo) come avviene in Casa di Foglie di Mark Denielewski. Contemporaneamente, Gorogoa è una parola inventata, che Jason Roberts ha immaginato quando era piccolo e che identifica un mostro roboante, il cui nome ricorda l’onomatopea del suo verso, simile a quello di un tuono. Nella vita di Roberts diventa una metafora del limite, dell’irraggiungibile, e anche il mostro sopito della sua insoddisfazione latente, per un lavoro (ingegnere del software) che non lo soddisfa mai completamente. Il richiamo di Gorogoa a un certo punto della vita di Roberts diventa impossibile da ignorare, e decide di affrontare il mostro, dedicandosi completamente allo sviluppo del gioco, curando personalmente qualsiasi aspetto della produzione al di fuori della musica. Il viaggio di Roberts è durato sette anni ed è stato complesso, produttivamente infernale (per due volte ha praticamente finito tutti i suoi soldi) e potremmo dire anche fallimentare se visto dall’ottica del business; eppure adesso è tra noi e rappresenta qualcosa di mai visto prima.

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Gorogoa è una parola inventata, che l’autore ha immaginato quando era piccolo e che identifica un mostro roboante

Inizialmente ci troviamo davanti una cornice quadrata, che ben presto diventa una finestra su una città, tra i cui vicoli si scorge lui, il mostro, Gorogoa. Alla finestra si affaccia il protagonista della storia, che colpito dalla visione cerca in un libro qualcosa che possa assomigliare al mostro. Trova un disegno, e in un fumetto quadrato compare una sorta di illustrazione mitologica di Gorogoa: è in quel momento che la faccenda diventa interattiva. Senza spendere nessuna parola, il puntatore del mouse diventa sensibile al fumetto e veniamo catapultati all’interno del disegno, che occupa tutta la cornice. A quel punto l’interfaccia si compone: ci sono zone di risonanza, cliccabili, che indicano oggetti con cui si può interagire, e icone di zoom out e di scorrimento, che permettono di spostare il punto di vista nella cornice. Al primo allontanamento, però, torniamo alla finestra, e la cornice diventa una griglia quadrata 2×2, che permette di spostare i tasselli del puzzle. Sì, perché proprio come accade nel surrealismo di Magritte, tutte le cornici all’interno delle immagini (porte, finestre, aperture nei muri) diventano delle porte verso una nuova realtà, e possono essere spostate in un altro riquadro della griglia, consentendoci di esplorare il mondo, risolvere gli enigmi, scoprire la storia. I tasselli possono essere sovrapposti o combinati, e i rompicapi a volte si avvicinano ai puzzle propriamente detti; altre volte, invece, richiedono di manipolare fisicamente le diverse ambientazioni per attivare una serie di meccanismi che danno la possibilità al protagonista di avanzare.

È quasi più facile imparare a giocare che raccontare, e la curva di difficoltà di Gorogoa è ripida quanto basta per gustarsi il senso di ogni singola tessera. L’artigianalità del titolo di Jason Roberts ne costituisce anche il suo fascino più grande: tutti gli elementi presenti nelle scene hanno un perché, e parte del piacere di completare il titolo è proprio spiegarselo… il perché.

UN MONDO MALLEABILE

Gorogoa diventa così un viaggio simbolico, mitico e per certi versi criptico, che anche senza l’uso delle parole riesce a raccontare una favola che collega diverse epoche e accompagna l’intera esistenza di una persona. È difficile non trovarci qualcosa di autobiografico, conoscendo la storia di Roberts, ma è anche vero che il suo essere sibillina e mai didascalica permette a tutti di trarre significati diversi, assolutamente personali. C’è spazio per la religione, per il senso stesso della vita e per il concetto di sconfiggere il limite che può rappresentare per ognuno di noi qualcosa di diverso. In fin dei conti, l’opera di Roberts è assolutamente coerente con se stessa sin dalla prima cornice ed è un omaggio costante all’idea stessa di enigma, sia nel modo asciutto di porsi, sia nel suggerirci che tutto ciò che vediamo merita almeno una seconda occhiata, perché niente è come sembra.

La messa in scena del mondo diventa essa stessa un enigma

Per certi versi, ma molto alla lontana, Gorogoa può ascriversi alla stessa famiglia di titoli come The Witness, ma se nella creazione di Jonathan Blow si avanzava cognitivamente secondo regole di stampo quasi linguistico (pur senza prevedere l’uso della parola), le associazioni create da Roberts seguono una logica quasi sempre visiva ed estetica, quasi induttiva. D’altronde, il gesto che si compie più spesso è lo zoom out, ed è fondamentale avere sempre uno sguardo di insieme delle varie aree che si vanno ad affrontare. La messa in scena del mondo diventa essa stessa un enigma, ma la maniera incredibilmente precisa in cui sono inseriti i suggerimenti e gli indizi, perfettamente integrati all’interno della struttura di gioco, rende tutto sempre e comunque leggibile.

La capacità di incastrare i vari elementi attraverso le splendide illustrazioni completamente realizzate a mano rende Gorogoa un immenso diorama di livelli sovrapposti che diventano una vera e propria scatola delle meraviglie da esplorare e con cui sviluppare un rapporto altamente fisico, esaltato da un uso del sonoro che tiene in secondo piano la musica per sfruttare i suoni d’ambiente, particolarmente materiali. Per preservare il rapporto tattile con Gorogoa, oltre al fatto che la versione mobile (soltanto iOS) costa inspiegabilmente molto meno (5,49 € contro i 14,99 € della versione PC/Switch), il mio consiglio è di giocarlo su iPad, o in alternativa su Nintendo Switch. Per carità, su PC è bellissimo uguale, e il paio d’ore passate alla ricerca del colorato mostro dagli occhi smeraldo resteranno comunque tra le più uniche nella vostra memoria ludica.

Gorogoa è un fantastico esperimento di arte e logica surrealista applicato ai videogiochi. La realizzazione artigianale e l’estrema cura di ogni dettaglio lo rendono un’esperienza estetica splendida, e la bellezza e la raffinatezza degli enigmi non sono da meno. Dopo sette anni di storia travagliata, Jason Roberts ha trovato finalmente il suo Gorogoa, e il racconto che ne è scaturito è un esempio di come un apparente disastro produttivo può diventare in realtà una piccola gemma. Lo scotto da pagare è un’esperienza breve, benché intensissima, e questo dettaglio potrebbe renderlo non adatto a tutti, ma sarebbe un vero peccato.

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Pro

  • Esteticamente meraviglioso.
  • Il mondo di gioco è IL gioco.
  • Enigmi perfettamente incastrati.
  • Concept unico.

Contro

  • Dura massimo due ore.
  • La versione mobile costa inspiegabilmente molto meno.
8.5

Più che buono

Se serve un tuttofare il buon Mancini è l’uomo da chiamare. La nostra principessa fotografa, usa la videocamera come se fosse un’estensione naturale del corpo e monta video manco fosse in una catena di montaggio. Ah… e scrive anche. Insomma… il classico “bravo guaglione”.

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