Eterno, unico, inimitabile e ineluttabile, il nostro DOOM. Non credo ci siano altre parole per descriverlo nel panorama attuale, sia in termini concettuali quanto in accorati e profondi rimandi al passato, più precisamente al 1993 – anno in cui, ci tengo a specificarlo, non ero ancora nato e neppure programmato (con molta probabilità). Però quando penso a DOOM, a John Romero, a quella ricerca costante del game design perfetto e di uno sparatutto che dimostrasse quando i videogiochi fossero ben oltre Tetris e Space Invaders, viene complesso riuscire a restare con i piedi per terra e fantasticare diventa inevitabile.
DOOM fa sognare, esaltare ed emozionare, ma soprattutto è capace di dare forma a una violenza sopraffina, miscelata con la rabbia e il desiderio di distruzione portato al suo massimo, andando ben oltre le aspettative e i classicismi delle opere ludiche, con pixel grondanti di sangue e budella, nonché di particellari che esplodono per i colpi di un fucile a pompa o di una doppietta.
Oggigiorno, anche grazie a nuove produzioni che hanno preso molto dai titoli di id Software e, in generale, dalle opere create da John Romero, è realisticamente complesso trovare qualcosa di così unico nel suo genere, tanto capace di migliorare e affinare il settore, quanto di impreziosirlo di grande creatività e unicità. La magia di DOOM iniziò, in tal senso, nel 1993 dalle idee folli e particolareggiate di un giovane alla ricerca dell’espressione perfetta, con la speranza di diventare il boss finale di una sua opera – già, sto parlando di DOOM 2, ma è bene procedere con ordine. Quando ho scritto di Quake e, soprattutto, dell’edizione speciale di Quake II, una nuova riproposizione della seconda iterazione del team statunitense, non avevo idea di quanto id Software tenesse alle sue creature.
IL SUCCESSO DI DOOM SPIEGATO COME SE NON SI CONOSCESSE DOOM
DOOM, per antonomasia e studio, è l’esempio perfetto di cosa significhi creare qualcosa e sperimentarlo, ammodernarlo e cambiarlo, affinché i giocatori – anche con le nuove iterazione – possano vantare di un’esperienza indimenticabile. Ora, che la storia di DOOM sia importante non serve ripeterlo e neppure rimarcarlo ulteriormente, specie dopo le conquiste di John Romero all’interno del panorama nostrano, ora concentrato a offrire un continuo del suo capolavoro con SIGIL 2, da poco aggiuntosi alla libreria del game designer statunitense e ora disponibile su PC e, soprattutto, anche su Xbox. Una storia fatta di grande fatica ed emozioni, di un taglio netto con il passato e soprattutto con l’amico Carmack, e il racconto del videogioco più grande e imponente di tutti i tempi. Anche se preferisco Quake, lo ammetto, per tanti motivi – alcuni anche solo personali, come ho già dettagliato in passato nella recensione dedicata alla versione migliorata della seconda iterazione dell’altro franchise di successo dello studio californiano.
In ogni caso, cosa spinge qualcuno fra le braccia di DOOM è la poetica del dolore che si manifesta in ogni modo attraverso la musica metal. D’accordo, non ci sono gli Iron Maiden, i Metallica e neppure altre band come gli Amon Amarth ad aver fatto grande DOOM, come non serve ribadire quanto effettivamente sia stato importante all’interno del panorama videoludico.
Un videogioco enorme, grandioso e ancora oggi difficile da emulare
Come recitava Carmack in uno dei suoi momenti di massima ispirazione:” C’è una scena ne Il Colore dei Soldi dove Tom Cruise si presenta in una sala biliardo con una stecca da biliardo personalizzata dentro ad una valigia. “Che cosa hai lì dentro?” chiede qualcuno. “Doom” risponde Cruise sogghignando: questa frase, e la successiva facile vittoria, era paragonabile a noi che presentavamo il gioco contro produttori ben più titolati”.
PERDUTO IN QUEL 666
Quel numero, senza tante cerimonie, corrisponde a Lucifero. Anche chiamato Diavolo, il Male Assoluto e il caprone dei caproni, pensando a The VVITCH di Robert Eggers, che con DOOM, quello del 1993, condivide ben più di quanto qualcuno potrebbe immaginare. Intanto, tutt’e due sono opere che hanno dimostrato qualcosa al mondo e creato, al contempo, delle particolarità inedite. Al riguardo, lo space marine, conosciuto come Doomguy, viene trasferito su Marte e si ritrova a dover fronteggiare una serie di bestialità tirate direttamente fuori da un film orrorifico bagnato di sangue in salsa Le Colline hanno gli Occhi, con la sola differenza che il Doomguy, di occhi, ne ha parecchi e pure diverse armi da fuoco – alcune delle quali ben più infallibili di altre.
In parole povere, è una delle trame più classiche che si potrebbero trovare, ed è proprio questo il punto: in nessuno DOOM, neanche nel reboot del 2016 e tanto meno in DOOM Eternal, la storia ha mai avuto un impatto così rilevante. Pur non avendo vissuto i momenti della sua pubblicazione e la successiva decade di successo che lo ha portato a un trentesimo anniversario sentito all’asintoto, DOOM è stato quel sogno che ha coniugato il desiderio di smembrare e uccidere a una complessità ludica che andava ben oltre le aspettative dei giocatori dell’epoca.
Difficile non innamorarsi dei pixel di DOOM anche dopo trent’anni dalla sua pubblicazione
ln ogni caso, DOOM (1993) ha aperto la strada di id Software verso un harem di piacere dominato dal desiderio di violenza assoluta, sorretto da amare consapevolezze e momenti di grande game e level design. Anche perché, se c’è una cosa che ricordo bene del primo capitolo del franchise, è quella struttura dei livelli unica nel suo genere, difficoltosa e complessa da vivere, ma al tempo stesso in grado di fornire al giocatore un modo diverso di andare a spulciare ogni segreto e mistero al suo interno, domandandosi magari se quelle pareti in pixel art potessero parlare fra loro ed essere testimoni della violenza appena perpetrata.
Game design e level design da fare ancora oggi invidia a molte delle produzioni moderne
Allora si sparava, si sparava e si faceva del male fino alla fine, compiendo massacri a destra e a manca mentre si raccoglievano chiavi blu, rosse, verdi e gialle, così da proseguire in una nuova area, oppure in un altro livello. Per l’epoca, ciò che si vedeva a schermo era vivacità e velocità: la grafica faceva il suo magnifico lavoro, i comandi per consentire i movimenti esaltavano e coinvolgevano, con il Doomguy che apparecchiava la tavolata di Natale, intento a smebrare qualche demone, preparandosi a un’altra strage a colpi di sparatorie, morte e tanto sangue.
ESSERE DENTRO DOOM
Parte del game design del primo DOOM, adattato per lasciare al giocatore il pieno controllo del personaggio, permetteva di approcciare i nemici come meglio si voleva. Nel reboot del 2016, soprattutto grazie all’ammodernamento di certi modi di raccontare il videogioco, questo obiettivo ha permesso a id Software di migliorare la fluidità delle sparatorie. Ora, sia chiaro: dal 1993 al 2016 l’evoluzione di DOOM è palese e lo si comprende dal mare di particellari che si possono contare all’interno dell’opera. Ciò che però nessuno si sarebbe aspettato, anche grazie a quell’impegno e al sogno di creare un’opera ancora più profonda, è che fosse DOOM Eternal a decretarsi come il DOOM definitivo agli occhi di tutti.
Per essere arrivati a questo punto, dunque, DOOM (1993) è stato preso enormemente d’esempio, a partire specialmente del level design, dai balzi, dagli scatti e dall’utilizzo del rampino, non presente nel primo capitolo e neppure nella precedente iterazione del 2016. L’impalcatura ludica, riuscendo a coniugare la modernità e il passato, hanno creato le produzioni che adesso si possono giocare dappertutto, anche attraverso Xbox Game Pass Core. C’è da dire, inoltre, che parte del percorso di sviluppo di DOOM (1993) può ricordare in larga parte Wolfenstein 3D, opera antecedente alla produzione geniale di John Romero, che al tempo era desideroso di vedere in modo totale un grande upgrade grafico e di creare un videogioco in grado di essere innovativo per gli home computer. Il successo di DOOM (1993) fu impareggiabile e totale, specialmente grazie all’acclamazione da parte della critica specializzata, che già conosceva l’impegno profuso di John Romero, ormai da qualche anno nell’industria dei videogiochi. Dopo DOOM (1993) arrivarono altrettante versioni come DOOM 64, giocabile interamente su Nintendo 64 – ora disponibile come tutte le altre opere del franchise.
Come accennavo prima, l’innovazione che John Romero apportò con DOOM (1993) non fu solamente estetica, ma coinvolse anche l’impalcatura ludica e la sua architettura. Se prima sparare e basta era sufficiente, avanzare di livello in livello e compiere massacri di ogni genere dava grande soddisfazione, Romero inserì delle chicche, dei power up e dei percorsi da superare con tute che potevano consentire di resistere a una pozza d’acido per qualche secondo, differenziando di molto l’esperienza.
Ciò torna anche nei capitoli successivi, ed è proprio con DOOM Eternal – al momento il più grande episodio del franchise per contesto e game design – che questo si manifesta. Lo si avverte nella semplicità, ma anche nello studio approfondito di ogni livello, e in generale da una trama più marcata, ora fondamentale. I Demoni e gli Arcidemoni hanno invaso la Terra e ora, ritrovandosi a difenderla, il Doomguy è costretto a liberarla prima che sia troppo tardi. A dirigere il gioco furono Marty Stratton e Hugo Martin, sviluppato con un motore grafico di ultima generazione, denominato id Tech 7, che da vedere è davvero splendido, come testimoniano i var screenshoot sparsi per l’articolo.
L’IMPORTANZA DEL PASSATO E DEL PRESENTE
DOOM (1993) incoraggiò parecchio John Romero nel corso degli anni a creare dei capitoli successivi e non ufficiali, capaci di dialogare entrambi con il passato e il presente, non contando il mare di versioni uscite nel corso degli anni, fondamentali per il game designer statunitense. Penso a SIGIL e alla seconda iterazione di questa sua nuova visione, create e adattate come una sorta di prosieguo delle sue pubblicazioni.
SIGIL 2 è qualcosa che espande ulteriormente la lore attorno a DOOM e all’intera espressione artistica di Romero
Altri episodi come quello di Blackroom, pianificato e poi lasciato morire proprio dagli ex fondatori di id Software, non possono ripetersi. Se il fascino di DOOM ancora oggi attira chiunque, portando i giocatori a vivere le esperienze di questo team di sviluppo, è perché DOOM è la Bibbia del videogioco sotto forma di blasfemia, qualcosa che ancora oggi affascina e riempie gli occhi dei giocatori. Qualcosa che è diventato metro di paragone, nonché prova di quanto il game design possa effettivamente creare unicità. DOOM è unico nel suo genere, impareggiabile e impossibile da emulare pienamente. È il lascito di John Romero.