L'importanza dei salvataggi nei videogiochi – Speciale

Un po’ bistrattati, alle volte contestati, spesso non funzionanti e in tante occasioni danneggiati e persi per sempre, i salvataggi nei videogiochi ci accompagnano da sempre. O almeno, da quando ne ho memoria. È come se si mettesse in pausa il mondo, in un certo senso. È come se s’interrompesse un’azione, mentre si prepara un’altra ancora, dando al proprio tempo il rispetto necessario affinché faccia un po’ cosa vuole, tanto alla peggio se ne perde altro e un altro ancora. E di tempo se ne perde tanto, troppo; e mica torna indietro, se poi si perde definitivamente: lo si deve, però, recuperare in qualche modo.

Marvel's Spider-man 2 gameplay

L’occhio cade sul conteggio delle ore passate su un videogioco; spesso sono così tante che non si fa esattamente caso a quante se ne siano passate al suo interno in una singola giornata o nelle ultime ventiquattro ore. Perché, diciamocelo, si è talmente immersi in Anor Londo che diventa impossibile riuscire a capire istantaneamente quali aree si sono superate lungo il tragitto. E magari in Marvel’s Spider-Man 2 il numero dei grattacieli sono superiori all’ultima volta, come se ne fossero aggiunti degli altri. Ora, non ho Google Maps aperto per scoprire esattamente quanti ce ne siano realmente, e di sicuro non è importante questo, specie in un testo che sottolinea l’importanza dei punti di salvataggio nelle esperienze videoludiche, reali amici di chi cerca di superare un nemico temibile e superare un nuovo obiettivo.

Fare del bene ed essere migliore non è mai stato tanto bello

È un po’ cosa cerco di fare io quando, speranzoso di compiere quella missione che mi piacerebbe perseguire come sogno, anche se ho il talento di mandare tutte alle ortiche, finendo per farvi ammazzare. Ora la faccio stealth, mi dico con convinzione. E intanto un cecchino, a difficolta massima, mi prende in pieno, dietro alla nuca. Cado, mi rialzo ed eseguo un loop, come quel coro di Returnal che qualcuno sicuramente ricorderà. Intanto, tuttavia, cerco di affrontare il nuovo percorso a modo mio, con l’approccio giusto. Sì, ma non salvo? Meglio farlo, anche perché conosco particolarmente bene la mia sfortuna. Non capisco mai se ci potrei morire, in realtà, o se perderò l’occasione giusta per arrivare in fondo al livello. In tal senso, lode ai salvataggi, amici reali dei videogiocatori in erba che ormai accompagnano tutti allo stesso modo. Non proprio allo stesso, sia chiaro, perché questo folle panorama sempre più all’avanguardia, in una visione che esplora il game design per plasmarlo con l’esperienza definitiva di ciascun giocatore, fa diventare una tazza di caffè, un modello poligonale su un dannatissimo tavolino nel bel mezzo di una stanza, un punto di ristoro come fosse un autogrill sull’autostrada regionale Aosta-Torino – che non vi consiglio affatto di approcciare, a meno che non abbiate tanti danari da spendere – prestata alle necessità dei giocatori. Oltre a collegare il tempo e lo spazio, il salvataggio di un dato diventa fondamentale.

Cosa succede, però, quando una tale profondità si ricollega al game design, delineando con forza una particolarità che merita assoluta attenzione? Salvare i progressi, insomma, diventa qualcosa di speciale, poiché sfocia nella vita odierna e un oggetto di qualunque tipo, come una matita o un pennarello, si tramuta in una connessione fra il videogioco e il giocatore. Come, non ci avete mai pensato?

MEGLIO SE QUI SALVO, O…

Come accennavo prima, questo è un panorama particolarmente folle. Di grandi idee, alcune delle quali avanguardistiche, se ne parla spesso. L’importanza di un salvataggio di qualsiasi natura, che si differenzia in base alle necessità di un giocatore, arriva al suo massimo quando si tramuta in un pretesto narrativo ed esperienziale.  Al riguardo, Dark Souls, Elden Ring e Sekiro: Shadows Die Twice sono gli esempi perfetti di cosa significhi vivere intensamente un momento e ritrovarsi, in seguito, a un falò per recuperare le energie e riprendere da dove si aveva lasciato precedentemente il viaggio. È un punto di salvataggio particolare che ora è divenuto, in realtà, un modo come un altro per continuare l’esperienza senza dimenticarsi le chiavi di casa.

O meglio, un’umanità: è qui che salvare avviene in un modo diverso dal solito, come se l’intera partita e quel momento diventassero una questione di vita o di morte, tramutandosi nell’unica alternativa per non perire o, peggio, finire senza neppure aver compreso da che punto si era lasciata l’esperienza. Il falò, oltre a raffigurare simbolicamente un luogo sicuro e accogliente, è il punto focale per poi continuare imperterrito a provocare dolore lancinante in giro per Lordran o negli angoli più angusti di Lothric, se non addirittura nell’Interregno, anche se, in quel caso, quei sostituitivi rispondono al nome di Grazia e il loro utilizzo non cambia poi molto dai sopracitati e neppure dagli Idoli, presenti in Sekiro: Shadows Die Twice.

Il Giappone sa sempre come affascinare, non è vero?

Al riguardo, le avventure parlano di eroi e di diseredati, nonché di guerrieri che si trovano in contesti complessi, costretti a doversela vedere con nemici temibili. Il loro utilizzo, dunque, è da collegare a ciò che è il classico cammino dell’eroe nelle avventure cavalleresche, alla costante ricerca di un luogo sicuro per rinvigorirsi e, infine, continuare il suo viaggio in un mondo oscuro dominato dalla paura e da una cupidigia infinita.

I falò e affini sono presenti anche in altri action RPG del calibro di Lies of P e Lords of the Fallen, senza citarne ulteriori, giusto per fare capire quanto è stato rilevante il processo evolutivo di FromSoftware. Qualcuno, tuttavia, si ricorda ottimamente cosa significa uscire da una partita quando non si ha più voglia di giocare. Non è altrettanto comodo, di sicuro, come adagiarsi davanti a un falò e attendere che il fato sopraggiunga inaspettatamente. Nella memoria collettiva, i falò di Dark Souls, Elden Ring e Sekiro: Shadows Die Twice sono diventati profondamente rilevanti nelle strutture ludiche di tantissime opere sparse nell’immenso parco titolo che ora si possono vantare ovunque, dai cataloghi digitali a quelli fisici.

QUELLA VOLTA CHE I SALVATAGGI BASTAVA BERLI DA UNA BROCCA

In una marea di opere sempre diverse, ne esistono alcune che il game design non lo riescono proprio a mettere da parte, specie se si tratta di raccontare un contesto e di farlo sentire vivo e pulsante al giocatore. Mi riferisco a Kingdom Come: Deliverance, una produzione medievale che anticipò, in un certo senso, ciò che avvenne a Cyberpunk 2077. Oltre ai tanti problemi tecnici, a un numero esagerato di bug al lancio e a un sistema di combattimento non particolarmente efficiente, c’erano comunque un’ottima storia, un’elevata fedeltà storica e uno strano modo di salvare che è stato l’unico per circa una settimana. Già, non bastava addormentarsi in letto qualunque e fare finta che non ci fossero i cumani da fare fuori. Si doveva bere della grappa, denominata “Grappa del Salvatore”, per perdere coscienza e salvare i progressi.

Mi è venuta voglia di grappa; non so a voi

Warhorse, in tal senso, intendeva proporre qualcosa di mai visto o provato prima, cercando di ricalcare l’imponente game design della produzione per collegarla con il contesto storico e narrativo. Un’impresa che, considerando le grosse difficoltà, non raccolse pareri positivi. La Grappa del Salvatore, infatti, era un oggetto costoso e si trovava di rado dagli corpi dei nemici e dalle casse in giro per il mondo medievale della Boemia. Diventava più un’impresa salvare che godersi la bevuta, tant’è che spesso, lo ammetto, uccidevo anche per avere un letto e mi trovavo, a causa del crimine di omicidio, costretto a fuggire a gambe levate. Al netto delle criticità, fra l’impossibilità di trovare la ricetta della Grappa del Salvatore attraverso l’alchimia e requisirla in giro per il mondo di gioco, l’idea di fondo era assolutamente geniale.

Kingdom Come Deliverance

Se da una parte arricchiva la struttura ludica, dall’altra parlava di qualcosa che, nel periodo storico e nel luogo in cui sono ambientate le vicende, aveva una valenza per i villici che popolavano le locande e le taverne di quelle aree. Però, c’è da dire che le origini della grappa derivano dai Burgundi, una popolazione proveniente dall’Austria che, oltre a bere, adorava fare la guerra e non era molto intenzionata ad abbracciare la fede cristiana. In epoca medievale, l’utilizzo della grappa era frequente: venne considerata, peraltro, una merce di scambio rara e apprezzata, nonché usata dalla Chiesa per attività ulteriori, soprattutto nei priorati sparsi per l’Europa. Non è un caso, in tal senso, che Warhorse abbia deciso di utilizzare una grappa come opzione di salvataggio, oltre a un classico letto in cui coricarsi e proseguire l’esperienza – che ho adoperato raramente, lo ammetto, e spesso in modo losco.

QUELLA VOLTA CHE SONO SOPRAVVISSUTO A RACCOON CITY, MA ANCHE IN ALTRI POSTI, LUOGHI E LAGHI E NE SONO USCITO CAPOBRANCO

Resident Evil è la serie videoludica per eccellenza che ha trasposto dei salvataggi originali attraverso delle macchine da scrivere. Ogni capitolo, dal più importante a quello meno attrattivo, porta con sé questo aggeggio tanto utile quanto rilevante per permettere al giocatore di salvare prima di un avvenimento di trama. In parole povere, in ciascun episodio del franchise è presente ed è spesso piazzata prima di uno scontro o di un evento da cui non si può tornare indietro.

Alla volte il terrore è proprio Raccoon City

È come se fosse un avvertimento, ma è anche un modo classico per confermare la profondità di un modello di game design preciso e istantaneo, capace di risultare coinvolgente e di tracciare letteralmente delle parti fondamentali delle storie di Leon Kennedy e dello sfortunato Ethan Winters, il protagonista di Resident Evil 7 e Resident Evil Village, le due iterazioni per antonomasia che hanno ricalcato il mito dei capitoli antecedenti e hanno dipinto su tela degli approcci geniali, da incorniciare. La macchina da scrivere è un simbolo fondamentale nel linguaggio comune, specie quando si cerca di raccontare una storia con l’obiettivo di renderla centrale all’interno di un videogioco che non può fare altro che farsi scoprire adagio e senza fretta. E l’obiettivo di opere simili, in tal senso, è provare a coinvolgere nel racconto a tal punto da diventare parte integrante di quanto viene palesato a schermo, con l’obiettivo non solo di spaventare e divenire metro di paragone, bensì di essere qualcosa di mai visto e contemplato prima.

Una macchina da scrivere adagiata su un tavolo qualunque, in tal senso, potrebbe risultare un oggetto d’ornamento come un quadro di Picasso sopra a un letto, ma immaginate quanto possa essere splendido per chi, al contrario, non può fare altro che sentirsi sollevato quando vede qualcosa che può salvarlo da un momento all’altro. Oltre a essere confortevole, caldo e amichevole, è quell’unica fonte di speranza che difende dagli orrori che si vivono all’interno delle produzioni di Capcom, ancora oggi fra i migliori esempi di cosa significhi creare e sviluppare opere di questo calibro in un panorama spesso caotico.

Una macchina da scrivere adagiata su un tavolo qualunque, in tal senso, potrebbe risultare un oggetto d’ornamento come un quadro di Picasso sopra a un letto

In un certo senso, ciò capita anche con Alan Wake II. A differenza della prima iterazione dedicata allo scrittore più famoso del panorama dei videogiochi, a prendere il posto di un regolare falò, di una bevanda qualunque o di una macchina da scrivere, che lui utilizza per altro (e non sono sempre cose belle), ci sono delle bottiglie termiche e una caffettiera. Una particolarità interessante è che, se usato il salvataggio rapido invece di quello manuale, a consumarsi è soltanto il bicchiere in plastica posto sul tavolino, mentre, in caso contrario, a diminuire è proprio lei, la caffettiera. In un mondo circondato dal buio, in cui niente è come appare e la finzione è ovunque, potersi abbandonare in questo modo al confortante abbraccio di un caffè, è come se fosse un regale gradito dopo tanto orrore, disagio e spavento.

A essere gratificante e totalizzante, è soprattutto cosa rappresenta all’interno del tessuto narrativo: Alan Wake vive in un sogno, all’interno di un Luogo buio che gli impedisce realmente di restare collegato con ciò che ha attorno e con cosa considera importante. Matrix, in un certo senso, dà le stesse sensazioni dell’opera di Sam Lake sotto questo aspetto, con la differenza che cosa avviene nella mente di Alan Wake è un mondo reale in un universo fittizio guidato da Graffio, che lo inquieta, sferza e spaventa. In un mondo così fitto di mistero, però, c’è anche il loop eterno che proietta il giocatore verso altri lidi, in terre sconfinati e in punti di contatto diversi. A volte salvare la propria esperienza rappresenta l’unico modo per restare ancorati a cosa resta, e in altrettante occasioni può rappresentare il metodo più facile per uscire indenni da un dolore infinito e brutale.

IL DESIDERIO DI ANDARE OLTRE

Incredibile quanto possa essere profondo e assurdo il mondo dei videogiochi quando si parla di andare a esaminare i mattoni che compongono queste immense opere anche da un punto di vista così minuscolo e particolareggiato, specie là dove chiunque vede solamente una tazza di caffè, un quadro o una brocca contenente dell’acqua santa, utile magari per rinvigorirsi e ricominciare senza troppi tentennamenti. E per fermarsi, prendere il proprio tempo e, chissà ricominciare.

Il mondo dei videogiochi è ricco, ricchissimo di queste sfumature

Il mondo dei videogiochi è ricco, ricchissimo di queste sfumature: raccontano contesti, meraviglie, storie e passati illustri del genere umano. Senza andare nel filosofico, cosa che spesso mi riesce estremamente bene, l’importanza dei salvataggi nei videogiochi è il collante di un intero game design. Dal primo caffè su Alan Wake II, ora non guardo più le caffettiere come prima.

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