Editoriali giochi pc, PS4, XBOX, Wii U | THE GAMES MACHINE https://www.thegamesmachine.it/category/editoriali/ Il riferimento per i giochi PC, Playstation, Switch, Xbox e le migliori piattaforme con anteprime, notizie e recensioni Sat, 27 Jan 2024 11:02:06 +0000 it-IT hourly 1 https://www.thegamesmachine.it/wp-content/uploads/2016/01/cropped-TGM_logo_tapa512512-32x32.png Editoriali giochi pc, PS4, XBOX, Wii U | THE GAMES MACHINE https://www.thegamesmachine.it/category/editoriali/ 32 32 Nel futuro dei videogiochi non c'è la creatività – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/269177/nel-futuro-dei-videogiochi-non-ce-la-creativita-opinione/ Sat, 27 Jan 2024 11:02:06 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=269177 Oggi voglio vestire i panni dell’uccellaccio del malaugurio perché la direzione che sta prendendo il settore dei videogiochi mi spaventa un sacco, tra chi prevede una stagnazione dei contenuti a causa degli abbonamenti, e chi invece teme un futuro privo di creatività dominato dagli strumenti di intelligenza artificiale generativa.

videogiochi creatività intelligenza artificiale opinione editorialeLa scorsa settimana hanno fatto molto discutere le parole di Philippe Tremblay, il direttore dei servizi in abbonamento di Ubisoft, che si augura un futuro in cui gli utenti diventino sempre più a loro agio nel non possedere i loro videogiochi: “Una delle cose che abbiamo notato è che i giocatori sono abituati ad avere e possedere i propri giochi. Questo è il cambiamento che deve avvenire nei consumatori: si sono sentiti a loro agio nel non possedere collezioni di CD o DVD, ma questa trasformazione sta avvenendo più lentamente [nei giochi]. Man mano che i giocatori si sentono a proprio agio in questo aspetto… non vengono persi i progressi. Se riprendi il gioco in un altro momento, il file dei progressi sarà ancora lì. Non è stato cancellato. Non perdi ciò che hai creato nel gioco o il tuo coinvolgimento. Si tratta di sentirsi a proprio agio nel non possedere il proprio gioco.

Ubisoft continuerà a vendere videogiochi su supporti fisici o digitali

Questa dichiarazione è stata ribattuta dalla stragrande maggioranza delle testate nazionali e internazionali estrapolandola dal contesto, che invece si riferisce alla nuova strategia del publisher francese legata al servizio in abbonamento Ubisoft+. Ubisoft continuerà a vendere videogiochi su supporti fisici o digitali, così che chi vuole possedere un determinato titolo possa continuare a farlo: “Il punto non è costringere gli utenti a seguire una strada o un’altra. Offriamo l’acquisto, offriamo l’abbonamento: in questo caso ciò che conta è la preferenza del giocatore.” Al di là di tutto, però, le dichiarazioni di Tremblay hanno provocato la reazione di Swen Vincke, il boss di Larian Studios e game director di Baldur’s Gate 3.

Baldur's gate 3 editoriale

Baldur’s Gate 3 non arriverà mai nel catalogo di un servizio in abbonamento, parola di Swen Vincke.

Al buon Swen non piacciono i servizi in abbonamento, anzi, non piace un eventuale monopolio in cui tutta o quasi l’offerta videoludica passa attraverso un abbonamento. “Qualunque sia il futuro dei giochi, i contenuti saranno sempre al centro. Ma sarà molto più difficile ottenere buoni contenuti se gli abbonamenti diventano il modello dominante e un gruppo selezionato di persone decide cosa va sul mercato e cosa no. La soluzione è la linea diretta tra lo sviluppatore e i giocatori.” Secondo Vinke, dal lato di chi i videogiochi li fa e chi li approva, i servizi in abbonamento rischiano di diventare dei semplici esercizi di valutazione tra costi e benefici, dove l’idealismo e la creatività vengono sacrificati sull’altare del mero profitto.

chi gestisce gli abbonamenti cercherà di limitare al minimo il rischio degli investimenti

Far sì che un consiglio di amministrazione approvi un progetto alimentato dall’idealismo è quasi impossibile e l’idealismo ha bisogno di spazio per esistere, anche se può portare al disastro. I modelli di abbonamento finiranno sempre per essere esercizi di analisi costi/benefici volti a massimizzare il profitto.” Un futuro simile andrebbe a esasperare una situazione già di per sé difficile. Secondo Vinke, infatti, già adesso chi sviluppa i videogiochi dipende da un gruppo selezionato di piattaforme di distribuzione in cui si combatte ogni giorno contro la cosiddetta “discoverability”, ossia in che modo e quanto un videogioco riesce ad attrarre l’attenzione dei consumatori. Parafrasando le parole del capoccia di Larian, in un futuro dominato dai servizi in abbonamento, saranno i servizi a determinare quali giochi vengono realizzati, in quanto chi gestisce tali abbonamenti cercherà di limitare al minimo il rischio degli investimenti.

Netlfix videogiochi editoriale

Nel frattempo anche Netflix ha iniziato da un po’ a offrire videogiochi nel suo catalogo.

È una visione pessimistica ma a mio avviso non troppo distante dalla realtà. Basti pensare a ciò che avviene in altri settori, come quello del cinema e delle serie TV. Sfogliando il catalogo di Netflix troviamo prodotti fin troppo simili tra loro che non si assumono chissà quali rischi, cercando di intercettare il trend del momento senza offrire grandi alternative a chi invece è alla ricerca di qualcos’altro. Sempre a proposito di Netflix, il colosso dello streaming ha in piedi un sistema quasi infallibile per valutare su quali progetti investire, un sistema che però potrebbe essere gestito interamente e automaticamente da una macchina dal momento che si basa interamente su un algoritmo.

Se dunque il futuro dei videogiochi è questo, abbiamo davvero bisogno dei team creativi?I colletti bianchi pensano di no, tant’è che il settore videoludico sta lentamente ma inesorabilmente implementando l’intelligenza artificiale generativa all’interno dei processi di sviluppo. Secondo l’ultimo rapporto State of the Industry stilato dalla GDC, infatti, il 49% degli oltre tremila professionisti intervistati ha dichiarato che l’IA generativa è già impiegata nei rispettivi posti di lavoro. Il 31% degli intervistati utilizza personalmente questi strumenti.

l’intelligenza artificiale generativa viene già impiegata ovunque

Ma in quali divisioni vengono impiegati? Contrariamente a quanto si possa ipotizzare, l’intelligenza artificiale generativa viene già impiegata ovunque, non soltanto in campi artistici. Tra questi le divisioni finanziarie sono quelle in cui l’IA viene utilizzata di più (44%), seguita da community management (41%) e production management (33%). Inoltre, a utilizzare di più l’IA sono gli studi più piccoli (37%), mentre poco più di un quinto (21%) degli sviluppatori doppia e tripla A ne fanno impiego.

Foamstars editoriale

Foamstars sembra già un titolo fortemente derivativo, ha senso che gli sviluppatori non si sbattano per realizzare una parte degli asset?

Quella dell’intelligenza artificiale è una materia controversa perché coinvolge varie tematiche sensibili, tra cui la sostituzione del lavoro creativo umano (chissà quali sono le figure professionali più licenziate nell’ultimo anno e mezzo…) e il modo in cui i vari tool vengono addestrati. È di pochi giorni fa la notizia che Foamstars includerà degli asset realizzati con Midjourney, lo stesso strumento sotto accusa per essere stato addestrato utilizzando i lavori di migliaia di artisti senza il loro esplicito consenso. Viene quindi da chiedersi se sia legittimo utilizzare a fini commerciali degli strumenti che potrebbero aver violato il diritto d’autore di numerosi artisti.

Ma al di là di questo, ciò che mi chiedo è questo: siamo proprio sicuri di volere un futuro fatto di videogiochi creati con lo stampino per soddisfare gli algoritmi dei servizi di abbonamento, magari sviluppati eliminando del tutto la creatività umana in favore di strumenti di intelligenza artificiale? Che fine fa la creatività se per sviluppare un videogioco basta digitare un prompt in un programma che fa tutto da solo, andando a scopiazzare di qua e di là? Chiamatemi pessimista, ma temo che questo futuro sia purtroppo molto vicino.

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Netflix e quel languorino di gaming mobile – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/268923/netflix-e-quel-languorino-di-gaming-mobile-lopinione/ Sat, 20 Jan 2024 11:02:46 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=268923 Netflix? Devo essere sincero: sono sempre stato uno snob in fatto di gaming mobile. Non sono uno che gioca cinque minuti e poi stacca, non mi è mai andato giù il modello free-to-play, con tutte le menate che comporta, e soprattutto ho sempre trovato indigesta e per nulla stimolante la pur sconfinata offerta di software, al netto di esperienze circoscritte di grande qualità (Monument Valley, per essere banale). Devo però ammettere che il modello Netflix mi ha incuriosito fin da subito. Un approccio ibrido, per nulla invadente per chi ha già un abbonamento e si è ritrovato semplicemente la sezione “giochi” nella sua app mobile, così, come fosse un plus, cosa che, come minimo, mette in posizione di ascolto tutti i clienti, pure i meno avvezzi al medium. Un servizio che sta diventando, con la giusta calma e oculatezza, sempre più ricco e convincente.




Un catalogo con un certo numero di hit del panorama indipendente più pop, come Into the Breach, Spiritfarer, Teenage Mutant Ninja Turtles: Shredder’s Revenge, Dead Cells, Death’s Door e Poinpy, con un crescente interesse per le opere più narrative e ricercate, a partire dal neoclassico Kentucky Route Zero, Il capolavoro di Sam Barlow Immortality, Valiant Hearts: Coming Home, Before Your Eyes, Storyteller ma anche i due Oxenfree. Proprio l’acquisto del team di sviluppo di quest’ultima serie, Night School Studio (fondato nel 2014 da esuli di Telltale e Disney Interactive Studios), avvenuto nel 2021, fu abbastanza profetico della direzione che, a mio parere, vuole prendere Netflix in ambito gaming: quella che porta verso le interactive novel.

NETFLIX, OXENFREE E TUTTE COSE

Non è un caso che Oxenfree sia di per sé affine, per tematiche e atmosfere, a serie di successo della piattaforma come Stranger Things e Dark. Un team che scrive da dio, capace di implementare con agilità la stessa scrittura all’interno di strutture di gameplay di facile utilizzo, adatte a tutti e che possono, potenzialmente, essere messe al servizio di nuove IP (anche) in base a quello che è più popolare, a livello televisivo, in un dato momento (senza escludere veri e propri titoli su licenza, visto che si sa che sono già in sviluppo, presso altri studi, giochi dedicati a Rebel Moon e Squid Game). È un po’ l’evoluzione naturale del modello Telltale, la realizzazione del loro “sogno”, perfettamente integrato in un servizio di streaming.

Oxenfree II, benché non sia un’esclusiva, è sicuramente il primo titolo di peso (e che peso) di Netflix come etichetta videoludica.

“Vi è piaciuta questa serie? Questo gioco potrebbe fare al caso tuo!”. Questo accento sulle esperienze narrative è sia logico, per un’azienda come Netflix che ha fatto delle “storie” il suo core business, sia inedito per certi versi, considerato soprattutto dove è sempre andato a parare il mercato mobile. Si nota chiaramente una ricerca e una cura che hanno portato ad avere un catalogo “di genere” assolutamente interessante, soprattutto per chi è incuriosito a provare, con la mente aperta, ritrovandosi in palmo di mano opere straordinarie.

Avere Immortality a portata di smartphone è un lusso.

Certo, la scommessa è rischiosa, per questione di impegno mentale e attenzione che titoli del genere richiedono (banalmente aver voglia di leggere e avere il tempo necessario per sessioni abbastanza lunghe, per “assorbire” il racconto a dovere), e infatti la varietà dell’offerta generale mira a intercettare il pubblico più vario possibile, spingendo poi i più inclini a sperimentare e scoprire quelle che sono le vere perle del catalogo. Netflix sta inoltre testando lo streaming su Smart TV e PC, in un processo tanto naturale quanto graduale di portare i videogiochi proposti su tutti quei dispositivi che fanno girare l’app, aprendosi, di conseguenza, anche ad altri tipi di pubblico e rendendo più fruibili, appunto, i giochi più complessi.

Inutile negarlo, per me Netflix Games è prima di tutto Poinpy, un gioco pericolosissimo per la circolazione delle gambe, in determinati contesti!

Staremo a vedere ma, sinceramente, la calma e la visione che Netflix sta dimostrando nel costruire il suo catalogo videoludico e le mosse fatte finora, mi fanno ben sperare per quello che sembra un percorso virtuoso, concentrato sulla qualità più che sulla quantità, con un accento sulla scena indie e tanta concretezza. Nel frattempo, ho perso il conto delle ore che ho fatto su Poinpy e forse la cosa sta diventando un problema. TUDUM!

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I videogame e il mio patto con il Diavolo – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/268670/i-videogame-e-il-mio-patto-con-il-diavolo-opinione/ Sat, 13 Jan 2024 11:00:04 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=268670 Quando Brendan Fraser era al culmine della prima parte della sua carriera, nel 2000 recitò in una commedia qui in Italia chiamata Indiavolato, remake di un film del 1967. Segretamente innamorato della collega Allison e troppo timido per dichiararsi, stringe un patto con il diavolo ottenendo ben sette desideri in cambio della propria anima. Quale migliore occasione per diventare estremamente attraente e interessante così da far breccia nel cuore della sua amata? Agli inferi però si gioca sporco, e ci sarà sempre qualche dettaglio in grado di mandare tutto all’aria. Eccolo infatti ricco e potente, ma trafficante colombiano tradito da tutti. Poi molto virile, ma con un pene minuscolo. Poi superdotato, ma sposato con un uomo. E così via, perché la morale insegna che non bisognerebbe mai chiedere nulla al demonio. Ma in realtà l’ho fatto pure io.

ghosts n goblins resurrection pc ps4 xbox

Ho stretto un patto col diavolo. Prima di giudicarmi, pensate alla vita sociale di un adolescente negli anni ‘80 del secolo scorso, appassionato di videogame, più dedito a impennarsi con ExciteBike che con un Fifty elaborato nel garage dell’amico più grande. Più portato ad andare in rete con International Soccer che in un vero campo da calcio. Non che la situazione mi pesasse, ma avevo due grandi desideri. Primo, che i “giochetti”, come venivano definiti quasi con scherno, non fossero più visti come un triste passatempo di tipi strambi che oggi definiremmo incel, ma diventassero una passione di cui andar fieri.

Del resto, finire Rygar con duecento lire era molto più cool che ballare la breakdance, e tornavi pure a casa con i vestiti puliti invece di ramazzare il selciato con il maglione. Io lo sapevo, ma il mondo ancora no. Secondo, non volevo più dover accettare compromessi tra le meraviglie in sala giochi e i pastrocchi – miracolosi, ma sempre pastrocchi – sul C64. Non era quello del Biscottone il Ghost n’ Goblins al quale volevo giocare. Io volevo accendere il computer e trovare il gameplay di Elevator Action con la grafica disegnata da Don Bluth.

IL RITUALE DEL VIDEOGAME

E così, in una notte di plenilunio invocai Berith. Non lo conoscete? Wikipediate, è il terribile duca degli inferi, a capo degli archivi infernali, nonché demonio che ispira negli uomini il peccato di blasfemia, arte – ma quale peccato! – nella quale eccellevo ogni qualvolta perdevo una vita al bar. Ero così in confidenza con Berith che gli diedi del tu. Iniziai il rituale. Non disponendo di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, che a quel che si dice se suonato al contrario inneggerebbe al demonio, utilizzai Touch Me di Samantha Fox.

Forse il brano non avrà avuto lo stesso spessore, ma la custodia macchiata e incartapecorita del 45 giri che ritraeva la giunonica cantante era testimone della mia dissolutezza. Senti, Berry – vi avevo detto che ero in confidenza – non è che puoi fare che i videogame diventino una cosa figa? Mi ascoltò. Piano piano i cabinati vennero tecnicamente sorpassati dai sistemi casalinghi, la PlayStation entrò in tutti i salotti, e produrre un gioco iniziò a costare prima come un cinepanettone, poi addirittura come un colossal. Essere “bravi ai giochetti” divenne una professione altopagata, e migliaia di persone finirono per guardare un deatmatch piuttosto che un film. Era arrivato il giorno del mio riscatto. Potevo finalmente flexare dicendo che io c’ero anche prima, ne avevo sempre intuito il potenziale, ero appassionato dal day one, io, trattando i neofiti come ominidi che avevano appena conquistato la posizione eretta, sciorinando superiorità e gatekeeping.

L’INGANNO

Berith però rideva. Il fiume in piena di denaro che gravitava attorno ai videogiochi portò a interessarsi del fenomeno anche multinazionali e società di investimento che poco amavano l’arte del game design, pensando solo a compiacere gli investitori. E questi ultimi non chiedevano bei titoli, ma lauti guadagni. A qualsiasi costo. E qualora i risultati non fossero, a loro insindacabile giudizio, soddisfacenti, non vi sarebbe stato scrupolo alcuno a falcidiare il personale. Avevo avuto i giochi che volevo. Realizzati però da tante formichine sacrificabili. Inutile riportare l’elenco dei caduti, non sarebbe completo né aggiornato, dato il continuo pessimo evolversi della situazione. Presentai le mie rimostranze all’empio traditore, che invece di scusarsi mi rispose per le rime. “E chi pensavi che potesse creare i videogame dei tuoi sogni, con quello che costano? Richard e David Darling, ai tempi in cui si alternavano all’unico computer che avevano? Jeff Minter? Da solo? Andrew Braybrook?

Leggi mai la lunghissima lista di nomi che compare quando termini un gioco? Chi pensi che paghi tutte quelle persone? Ci vogliono grandi risorse e grandi spinte di marketing, solo così si può esaudire il tuo desiderio. Non stai forse già sbavando dietro il trailer di GTA 6? Ti ho accontentato.” Aveva ragione. Mi ero illuso che l’evoluzione da Cabal a Call of Duty fosse solo una questione di tempo. Invece no. Chiedeva un tributo di sangue lavorativo.

LA MELA CHE CADE IN UN GARAGE

È sempre romantico pensare alle piccole startup nate in un garage. Come la Apple. O la Coca Cola, nata nel retrobottega di una farmacia solo perché John Pemberton non aveva un garage. Del resto, a che gli sarebbe servito? All’epoca non c’erano nemmeno le macchine. La famosa bibita e la prima autovettura con motore a scoppio furono inventate nello stesso anno, il 1886. Ma se ora abbiamo le lattine rosse nel frigo, o l’iPhone tra le mani, è perché a un certo punto qualcuno ha deciso di fare le cose in grande. Perchè come un albero che cade dove nessuno può sentirlo non fa rumore, una mela che resta in garage non verrà mangiata da nessuno. È grazie a questa mentalità imprenditoriale che possiamo viaggiare in aereo, possedere una macchina, ordinare uno scopino da bagno a forma di leprotto e riceverlo a casa il giorno seguente, o anche semplicemente trovare gli scaffali del supermercato sempre ben assortiti.

Abbiamo tutto questo perché ci sono aziende che dai nostri acquisti e dal nostro stile di vita traggono beneficio economico. Grandi aziende. Grandissime aziende. Che funzionano tutte allo stesso modo, al che viene da chiedersi se non sia per caso l’unico modo possibile. Assunzioni e licenziamenti a ondate, a compensare violenti e repentini andamenti di mercato, in un susseguirsi di benessere e austerità, espansione e compressione, come la respirazione di giganteschi mostri, tutti uguali. General Motors non produce videogame, ma ha tagliato centinaia di posti di lavoro. Anche Ford. Pure Sweetgreen, che vende insalate, e Walmart.

LE GIUSTIFICAZIONI

Va chiarito un punto fondamentale: alle aziende non piace licenziare. Significa innanzitutto ammettere che si dispone di una forza lavoro superiore al lavoro stesso, generando una situazione economicamente non sostenibile. Dopodichè c’è un danno d’immagine sia perché un licenziamento è una tragedia per chi lo subisce, sia perché iniziano inevitabilmente a circolare voci sulla salute dell’azienda stessa. Ecco perché si sono sempre usati termini come “riorganizzazione”, “ottimizzazione”, e solo ultimamente si sta ammettendo che il re è nudo, ovvero, nel nostro mondo, creare giochi AAA, o eccellenti servizi di intrattenimento digitale, potrebbe non essere più proficuo. Molti, tra cui anche Meta, hanno accusato la fine della pandemia, e dunque il graduale ritorno alla normalità, come una delle cause.

Durante il lockdown si passava molto più tempo online e si compravano molti più servizi legati a internet, di conseguenza le aziende hanno assunto e investito credendo che il trend sarebbe continuato anche dopo la sconfitta del Covid – o che il morbo non se ne sarebbe mai andato – trovandosi poi con molte persone più del necessario. Questo è assolutamente normale e non riguarda solo il settore della tecnologia. Basti pensare agli addetti alla sicurezza dei centri commerciali incaricati di leggere il Green Pass. Una volta finita l’emergenza, non sono stati più chiamati. Ed eravamo pure felici di ciò. Altre volte, i tempi di sviluppo sono così lunghi – parliamo anche di lustri – che una volta uscito il gioco si ritrova in un mercato diverso da quello ipotizzato all’epoca del business plan. Quale genere andrà per la maggiore tra cinque anni?

Quali tematiche e ambientazioni saranno sulla cresta dell’onda? Si punta quasi a caso, e se si perde, si paga. In risorse umane. E poco importa se i CEO rimangono al loro posto o nel peggiore dei casi cambiano compagnia, il mal comune mezzo gaudio non ha mai portato da nessuna parte. Senza contare che per ogni big che licenzia mille persone, ce ne sono altri mille che silenziosamente smettono di fare i solo developer perché han trovato un impiego fisso e sì, programmare videogame è cool ma il mutuo incalza. Ma non hanno i numeri per far rumore. Questo è l’irreversibile processo del consumo di massa.

LE SLIDING DOORS

E se quella sera in cui ho stretto il patto col diavolo invece mi fossi sparato “Le Dolci Zie” in seconda serata su qualche emittente privata? Forse avrei il Commodore 512, o 4096, in trepidante attesa di Paradroid 7, e sarei visto ancora dalla maggioranza come un tipo strambo. Le migliaia di persone che han studiato programmazione per poi finire licenziate dagli studi AAA avrebbero magari frequentato giurisprudenza, per poi finir licenziate dagli studi legali. Non sarebbe cambiato nulla, si sarebbe solo spostato l’ago dell’interesse economico su un altro campo.

Grand theft Auto VI PC

Se tornassi indietro, esprimerei lo stesso quel desiderio. E sono sicuro che lo farebbero in molti. Torno a guardare il trailer di GTA 6, pensando alla strada videoludica finora percorsa, sulle note di Tom Petty. Berith mi osserva, ogni tanto gli chiedo in quanti siamo ad averlo tormentato con la storia dello sdoganamento del videogame. Non risponde, ma i suoi occhi brillano.

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L’auto-inganno dei The Game Awards – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/268022/lautl-auto-inganno-dei-the-game-awards-l-opinione/ https://www.thegamesmachine.it/editoriali/268022/lautl-auto-inganno-dei-the-game-awards-l-opinione/#comments Sat, 16 Dec 2023 13:00:50 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=268022 È molto comodo e auto-assolvente prendersela con Geoff Keighley per quel “please wrap it up” ai The Game Awards, per aver schivato la questione israelo-palestinese o non aver parlato dei licenziamenti nell’industria. Ma di tutte queste storie a noi, in fondo, interessa davvero?




Geoff Keighley si è manifestato a noi vent’anni fa con la promessa di uno show che fosse per il videogioco quello che gli Academy Awards – gli Oscar – sono per il Cinema. Gli abbiamo creduto, perché dentro di noi è vent’anni e forse anche più che soffriamo nel vedere “videogioco” scritto con la minuscola mentre la “C” di Cinema ci sembra così gigantesca. Non ci siamo minimamente posti il problema che un Academy il videogioco non ce l’ha, come non ha uno Star System: sulle copertina c’è il nome del team di sviluppo e il logo del publisher, quello di Hideo Kojima lo abbiamo tolto nel 2014 e poco importa se poi nel 2019 è stato rimesso per questioni di marketing. E quindi Geoff Keighley ci ha dato i nostri Oscar, ma senza quei nomi che sfruttano gli Oscar per far sentire la loro voce. Ai TGA puoi ringraziare Marx quando alzi una statuetta, ma nessuno può sentirti urlare quando perdi la tua Proprietà Intellettuale.

CARO FARES TI SCRIVO

 Il problema di fondo è questo. Vogliamo disperatamente essere visti come Hollywood, perché Hollywood è una cosa che nessuno definirebbe “per bambini” e nessun senatore paragonerebbe mai alla droga. Solo che appunto a rendere Hollywood tale sono le personalità. Il biglietto lo compri per vedere i Di Caprio e le Johansson, laddove nei videogiochi compri perché è Mario, al massimo perché è Naughty Dog. Chiaro, esistono le eccezioni  – esistono le rockstar – ma quando per qualche motivo un autore riesce ad emergere a dispetto di quello che vogliono gli executive dell’azienda finisce per diventare uno strumento da utilizzare. Se ti chiedessi cosa pensi che sia il videogioco forse risponderesti “arte” o “cultura”, ma la verità è che molto spesso mi staresti dicendo una bugia. Per tanti di noi, lo ammettano o meno, il videogioco è soprattutto intrattenimento. Allo stesso tempo però c’è di mezzo la parola “gioco”, e il gioco, si sa, è infantile, per cui sentiamo questa necessità di innalzare il medium per non sentire questo senso di colpa, ed il lavoro c’è reso più facile (sicuramente più facile rispetto a capire perché nasce questo senso di colpa) proprio da momenti come i TGA. La fotografia perfetta di tutto questo sentiment è Josef Fares che urla “fuck the Oscars” sul palco di Geoff: dice allo stesso tempo a noi giocatori che ce l’abbiamo fatta e diventa un’emanazione dell’industria che celebra se stessa, appropriandosi dell’entusiasmo e della storia dello stesso Fares.

The Game Awards

Quest’anno qualcuno ha iniziato a vedere dietro questa maschera. Inevitabile, quando decidi di allocare un sacco di tempo al nuovo progetto del già menzionato Kojima e (coincidenze?) del regista Jordan Peele e poi ti ritrovi a chiedere di stringere quando sul palco sale qualcuno che oltre a ritirare una delle statuette che sono il pretesto della serata prova a dire qualcosa, a ricordare un collega morto meno di un mese fa. Altra gente ha fatto notare come il focus si sia spostato da tempi non sospetti dai premi (ormai quasi un MacGuffin attorno a cui girano i TGA) ai trailer, con diverse categorie premiate off-screen durante gli stacchi pubblicitari e a dirla tutta alcune nomine estremamente questionabili. Ma è davvero così sorprendente che il pubblico di un’industria che ha nell’hype il suo Unico Vero Dio sia collegata ad una delle migliaia di dirette su Twitch dell’evento essenzialmente perché gli interessa vedere OD di Kojima e non chi si porta a casa il Game of the Year? Le categorie sono funzionali a creare il contesto in cui poi i TGA prosperano, perché le discussioni tra appassionati tra chi sia più meritevole dello status di GOTY tra Alan Wake 2 e Baldur’s Gate 3 generano un sacco di interazioni e la chiacchiera si traduce in audience, ma alla fine tolta la categoria principale il resto dello show serve da surrogato dell’E3. Molto più di quanto non sia il Summer Game Fest.

NO MAN’S SKY IN THE GAME AWARDS

La domanda da porsi è a chi serva tutto il carrozzone. Sicuramente qualche sviluppatore ne trae un ritorno, e quel trailer di Pony Island 2 alla fine forse per Daniel Mullins è un modo di affermare il suo nome rimanendo fuori dal sistema dopo averlo sfruttato comunque facendosi pubblicare Inscryption da Devolver Digital. Ma è quasi un “danno collaterale”, uno di quegli autori di cui si diceva sopra riescono a scappare ma poi alla fine finiscono per restituire almeno quanto ricevono, perché Geoff Keighley dando spazio a Mullins di fatto fa indiewashing con le stesse regole di ingaggio delle due categorie dedicate a questa buzzword. Il primo a guadagnarci è ovviamente Geoff, che è sempre di più una personalità centrale per quanto riguarda la comunicazione del videogioco.

A oggi o sei Rockstar, Sony, Nintendo o un altro grande nome (e quindi hai i tuoi canali e i tuoi eventi) oppure devi passare da TGA e Summer Game Fest per raggiungere il grande pubblico. Il che vuol dire che il tariffario al minuto per questi due spazi è tariffato di conseguenza. Più in generale a guadagnarci è l’industria: alla fine della fiera è l’hype quello che piazza i preordini, e tenerne le redini permette di controllare la percezione che poi il pubblico di massa ha dell’industria stessa e dei nomi che la compongono. All’uomo della strada non interesserà mai sapere quanto è costato in termini di crunch Cyberpunk 2077. Ora come ora vuole la conferma che alla fine ha fatto benissimo a comprarlo al day one (ha addirittura vinto un premio dopotutto!), e se chi racconta come stanno davvero le cose non trova spazio sul palco l’uomo della strada continuerà a condurre un’esistenza dove il problema del crunch non lo tange, e non c’è nessun problema di consumo etico all’interno del videogioco.

The Game Awards

Questi spazi premiano la memoria corta, perché se la nostra memoria è corta allora non solo Cyberpunk 2077 diventa una grande storia di riscatto, ma Sean Murray può rifare la stessa comunicazione già vista dietro No Man’s Sky per il prossimo gioco di Hello Games, come nella definizione di follia di Vaas Montenegro. Il 9 agosto 2016 è lontanissimo, una patch alla volta ci siamo dimenticati di tutte le promesse a vuoto e degli strilli buoni solo per prendersi spazio sulle copertine dei magazine a scapito di altri sviluppatori. Si parla già di un pianeta grande quanto la Terra completamente esplorabile e vivo, non ci interessa che poi Hello Games su Linkedin ricada nella tier 11-50 dipendenti (l’ultimo dato, aggiornato al 2020, ne contava 26). Ci piace poter credere a questo ennesimo sogno e quindi contro ogni buonsenso ci crediamo nonostante i precedenti, e l’industria si alimenta di questo nostro desiderio. Sono queste le cose che a noi piace ascoltare e a loro raccontare, non i report sui 7000 dipendenti rimasti a casa solo quest’anno mentre in parallelo si assumevano delle società specializzate nell’ostacolare la sindacalizzazione della forza lavoro. Keighley ne ha preso semplicemente atto intercettando una domanda che in fondo è la stessa domanda, sia da parte di chi i videogiochi li fa che di chi li compra. È escapismo. Vogliamo che sia tale. I TGA ce lo raccontano così.

The Game Awards

È molto più facile cercare conferme che ascoltare il dubbio. Quelle vocine sono scomode, rumori di fondo da eliminare con l’auto-equalizzatore di Spotify o quantomeno da coprire con altre voci, più rumorose, più festanti, più seducenti. Incidentalmente anche molto meno significative, ma alla fine che importa? I TGA sono uno Specchio delle Brame in cui vediamo riflesso tutto quello che abbiamo sempre desiderato, e quello che abbiamo sempre desiderato è una grandissima festa comandata che ci distragga dai nostri problemi, non qualcosa che ci colpevolizzi per quelli degli altri.

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Devo fare pace con GTA (6) – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/267686/devo-fare-pace-con-gta-6-lopinione/ Sat, 09 Dec 2023 13:04:49 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=267686 Su GTA 6 sono combattuto. Non ovviamente sul gioco in sé, di cui non sappiamo nulla e finché non esce non esiste, né sul “giocarlo o non giocarlo”, perché alla fine vuoi davvero non giocare una roba così tanto importante? No, in realtà sono combattuto perché non pubblicavano un gioco della serie da un sacco di tempo, da dieci anni, o se preferite da due generazioni e mezza fa. Nel frattempo, il mondo dei videogiochi è cambiato moltissimo, il mondo della critica è cambiato moltissimo e soprattutto io sono cambiato moltissimo.




L’ultimo GTA è uscito che avevo diciott’anni, in concomitanza con la fine della mia vita di ragazzino. La serie era stata per tutta la mia adolescenza quella dei giochi “da grandi”, quelli violenti, quelli aperti in cui si poteva “fare tutto”, e alla fine per lo più si sparava alla polizia e si picchiava la gente. Dopotutto quando sei un ragazzino non è semplice andare oltre la superficialità di certe cose, anche quando i temi ti vengono sbattuti in faccia, tipo negli infiniti monologhi filosofici e politici di Metal Gear Solid. Figurati in dei giochi in cui il messaggio è abbozzato, satirico, molto più adulto e difficile da cogliere rispetto a quell’etichetta di giochi-violenti-non-per-bambini che gli avevamo appioppato, noi e i telegiornali.

Di fatto era la serie del giocazzeggio, del free roaming estremo, del girare senza meta che in qualche modo finiva sempre a inseguimenti e sparatorie, ma anche delle palestre in cui pompare i muscoli, dei negozi in cui comprare i vestiti, dei graffiti, del tuning tamarro sulle auto. A chi importa della trama? Ricordo che avevo dieci anni o poco più e tutti nel quartiere giocavamo a San Andreas per decine di ore, ma non ce n’era uno che avesse davvero finito il gioco.

A CHI IMPORTA DELLA TRAMA?

Da questo punto di vista lo spin off di CJ era effettivamente il migliore della serie. Mi ricordo un successo di pubblico clamoroso, e in effetti ora spulciando tra le statistiche vedo che ha venduto più copie del capitolo seguente, nonostante la fama del brand GTA sia sempre cresciuta e nonostante quello dopo non fosse uno spin off. E la cosa non mi stupisce. In effetti è triste che di contro proprio il quarto capitolo sia forse il migliore della serie, nella sua coerenza tra messaggio narrativo ed esperienza di gioco, nel modo in cui taglia via molti fronzoli legati al giocazzeggio e si concentra su quello che voleva raccontare. E però noi ragazzini volevamo cazzeggiare e sparare, quindi meglio San Andreas e che importa del messaggio. Anzi, è peggio di così, perché il cazzeggio e la violenza diventano il messaggio stesso della serie, con buona pace delle intenzioni narrative. Ed è normale: sono i sistemi e le interazioni che esperiamo in un gioco a darci un messaggio molto più delle parole e le narrazioni passive che ci vengono propinate.

Ma nel 2013 la mia adolescenza volgeva al termine e per me GTA 5 è stato quasi una boa attorno a cui girare, uscito e divorato dopo aver superato il test d’ingresso per l’università, mentre aspettavo che cominciassero le lezioni e abbondavo di tempo libero. Ed è stato un capitolo in un certo senso democristiano rispetto al precedente. A guardarlo oggi raccontava con sagacia e la giusta dose di ironia vari aspetti della società americana e delle sue storture, come di consueto per la serie. Soprattutto lo faceva sfruttando i tre protagonisti, diversissimi tra loro per evidenziare le sfaccettature culturali e il dislivello sociale. Inoltre riusciva a sperimentare, proprio grazie a questi tre personaggi giocabili, e aggirare alcuni problemi peculiari degli open world, soprattutto a proposito della famigerata dissonanza ludonarrativa.

DIVENTARE ADULTI

Il fatto è che faceva tutto questo restando saldamente ancorato al suo spirito di giocazzeggio, non azzardandosi minimamente a rifare lo stesso “errore” del quarto capitolo, a darsi un tono più serioso. E già allora, in questo quinto, ci avevo visto degli spunti più adulti, che semplicemente non avevo visto nei precedenti perché ero un ragazzino. Nel mezzo ho recuperato pure Red Dead Redemption, e pur nella mia immaturità critica dell’epoca percepivo fosse qualcosa di più profondo del “GTA nel far west”.

Nonostante avessi comunque vent’anni o giù di lì, e alla fine il gioco l’avessi preso per sparare ai cowboy. Quel qualcosa in più, quel qualcosa di diverso che ho percepito in quel selvaggio west agli sgoccioli, lo aveva reso il mio preferito tra i giochi Rockstar nonostante non avessi perfettamente capito perché. Lo avrei capito non troppo tempo dopo.

Di fatto il loro primo gioco a cui ho giocato “da adulto” e con un po’ più di comprensione del linguaggio è stato il secondo Red Dead Redemption, che ho seguito con curiosità dai primi rumor e in effetti si è poi rivelato un gioco davvero epocale, di cui forse parliamo anche troppo poco e troppo raramente. Lì ho visto davvero per la prima volta oltre il giocazzeggio, ho visto la volontà di Rockstar di usare l’open world come strumento per raccontare, facendo vivere al giocatore determinate cose. E ho capito di trovarmi davanti a uno dei migliori videogiochi mai realizzati.

COSA VUOLE ESSERE GTA 6?

Ed è per questo che oggi nei confronti di GTA6 sono davvero combattuto. Da un lato perché ai miei occhi è rimasta quella serie adolescenziale, che ora torna con un nuovo capitolo ma in cui alla fine si gioca sempre per sparare alla polizia e fare il gangster americano. Dall’altro però è cambiato il mio modo di giocare ai videogiochi, di vedere la stessa Rockstar, forse è proprio cambiata Rockstar Games perfino. A guardare questo primissimo trailer sembra esserci tutta l’intenzione di raccontare ancora una volta l’assurdità degli Stati Uniti, sembra esserci una particolare attenzione per i social che così tanto caratterizzano il nostro tempo, e sembra esserci la volontà di sperimentare ancora con i protagonisti, andando stavolta a raccontare di una coppia, con tutte le implicazioni e i potenziali pericoli che questo comporta.

La verità è che da GTA6 non so bene cosa aspettarmi. Se sperare in un’esperienza scardinante come Red Dead Redemption 2, o se piuttosto entrare nello stato mentale per cui sarà sempre il solito, ossia ancora un gioco adolescenziale, in cui magari adesso il me adulto vedrà dei sottotesti che prima non vedeva, ma pur sempre una roba in cui si spara agli sbirri e si va in giro a fare brutto con tutti. Andrò per la prima opzione, immagino, senza dimenticare cosa ha rappresentato GTA nella mia adolescenza, e cosa vedo adesso nei giochi Rockstar. Che ricordarsi da dove si viene è importante, ma lo è di più crescere e migliorarsi, e guardare al mondo con gli occhi di oggi e non con quelli di ieri.

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La nobile arte di giocare a qualcos'altro – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/267380/la-nobile-arte-di-giocare-a-qualcosaltro-lopinione/ Sat, 02 Dec 2023 12:02:01 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=267380

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

Giocare e guardare un film potrebbe essere alquanto comune. Chi ha visto il film Open Water? Basato sulla storia vera della tragica scomparsa di Tom e Eileen Lonergan, parla di una coppia in crisi che per ritrovare l’intesa perduta decide di concedersi una vacanza all’insegna delle immersioni, grande passione di entrambi. Per una strana serie di sfortunate coincidenze, durante un’escursione in barca i due vengono dimenticati in mezzo all’oceano, abbandonati al loro destino. Le vie del Signore, sebbene infinite, in questo caso conducono dritte verso le fauci di famelici pescecani, e poi arrivano i titoli di coda a sigillare un finale chiusissimo. La vicenda è abbastanza romanzata, ma è stata per me spunto di riflessione. Cosa sarebbe successo se invece di tentare di ricucire il rapporto si fossero mandati allegramente a quel paese? Niente viaggio, niente gitarella, niente spuntino proteico per gli squali. Potrebbero essere ancora vivi. Voler a tutti i costi riprovarci è costato loro la vita.




E, riflessione nella riflessione, anche se non fosse finita in maniera così tragica, chi ci assicura che avrebbero superato la crisi? Questo non vuole certo essere un incoraggiamento a lasciarsi alla prima difficoltà – sentite un avvocato se siete sposati, in ogni caso – però è innegabile che alcune relazioni nascano sotto un cattivo segno o finiscano per divorare inutilmente il prezioso tempo che ci è concesso in questa vita. E non mi riferisco semplicemente a questioni sentimentali, anzi dato che siamo su TGM sto per agganciarmi ai videogiochi. Ci sono persone che vivono un rapporto tossico con i videogame, e le immagino virtualmente disperse nell’oceano, incapaci di tornare a riva, intrappolate in una situazione creata con le loro stesse mani. Proprio come gli esseri umani, i viggì non sono entità astratte plasmabili a nostro piacimento, ma creature complesse con determinate caratteristiche che per alcuni sono pregi, per altri rappresenteranno difetti. Eppure esistono persone che pretendono di veder adattato il gameplay, o la grafica, o qualsiasi cosa passi loro per la mente, secondo i propri gusti individuali. Lies of P?

Giocare ACCESSIBILITÀ

Rendetelo più facile. Return to Monkey Island? Usate la pixel art. Joel Miller? Non deve morire, come Misery. E mentre si dannano l’anima sprecando energie, chissà quante anime gemelle videoludiche scorrono davanti ai loro occhi, passando inosservate o al massimo finendo salvate nella wishlist, termine politically correct per definire quell’insieme di giochi che se non mi spammate in dieci che sono scesi a novantanove centesimi manco li guardo, e se li compro manco li installo, tanto per un euro chissenefrega.

IL RACING GAME IN CUI NEMMENO HO GUIDATO

Doverosa a questo punto una mia ammissione, perché sono un peccatore nonostante mi appresti a scagliar pietre. Sono una schiappa colossale ai racing game. Qualsiasi titolo più complesso di Super Sprint è per me ingiocabile. Calibrare sospensioni, pressione degli pneumatici e altri parametri di questo tipo mi è impossibile. Ci ho provato un sacco di volte, tutte con esisti pessimi, affrontando ogni circuito disordinatamente, mentre gli avversari sparivano all’orizzonte. A un certo punto ho anche iniziato a mettere i settaggi automatici. E delegare le marce all’AI. E disattivare i danni. E pure ad abilitare la traccia che mi avrebbe mostrato la traiettoria ideale da seguire. Il tutto, alla difficoltà minima, mi ha consentito di effettuare qualche timido sorpasso. Ma stavo ancora giocando a un racing game?

Giocare

No. Ero su una specie di trenino panoramico dei parchi tematici, che andava da solo, mancava solo un infante sudato al mio fianco che mi sporcasse con il suo maledetto cono di zucchero filato. Alla fine ha vinto la noia, ma quanto tempo ho sprecato incaponendomi a voler a tutti i costi guidare? Oddio, “guidare”, avvocato, direbbe il famoso meme. Sono stato anche io abbandonato in mare aperto sprecando ore preziose che avrei magari potuto passare con i miei amati metrodivania o roguelite. Per colpa solo e unicamente mia? No, signori, se quei geni di sviluppatori non avessero farcito il gioco di opzioni atte solo a snaturarne il gameplay a mo’ di specchietto per le allodole allo scopo di irretire qualche ingenuo gamer, probabilmente dopo le prime run avrei chiuso tutto. Invece ci sono cascato, ma ora la mia maturità videoludica mi consente di riconoscere quando un gioco non fa per me e passare allegramente oltre, senza provare ostinatamente a perdermi all’interno dei menù di configurazione sperando di ottenere un qualche surrogato dell’esperienza originale, barattando grande quantità di tempo con poco divertimento.

TROPPO DIFFICILE? TROPPO FACILE? TROPPO QUALSIASICOSA? A COSA VOGLIO GIOCARE? DISINSTALLIAMOLO!

Eppure in molte recensioni degli utenti, su Steam o sui gruppi dedicati al Current Big Game, proliferano i consigli su come stravolgere ogni meccanica per camminare spediti verso la schermata di congratulazioni. Ad esempio se togli la permadeath, aumenti il loot, abbassi l’AI dei mostri e giochi al tramonto ma non del tutto a sera, alla fine Rogue Kattivo riesci a finirlo. Mi sembrano quelli che vanno in vacanza in luoghi improbabili raccontandoti che se stai attento a quello che mangi, giri come uno straccione, non incroci mai lo sguardo degli autoctoni e partecipi con trasporto alla Danza della Coprofagia al plenilunio, alla fine è un posto tranquillo. Grazie dei consigli, ma se questa è una vacanza, resto a casa mia, e quello è un roguelike piuttosto mi sparo un platformer come si deve, con i miei bei salti pixel perfect che tanto mi piacciono.

Giocare

Dunque, la prossima volta che troviamo qualche videogame troppo difficile, troppo facile, o troppo biondo, come diceva Ricky in Fight Club, disinstalliamolo e passiamo ad altro che ci soddisfi pienamente senza se e senza ma. Pensate che in redazione c’è chi non riesce a lanciare giochi horror poichè troppo sensibile. E indovinate che fa? Sbraita per avere un faro da contraerea che lo segue sui giochi della serie Amnesia? No, saggiamente non gioca ai survival horror. Che tipo eccentrico, nevvero? Smettiamola di chiedere bilanciamenti che in realtà sono stravolgimenti per puro capriccio e pigrizia nel cercare soluzioni a noi più congeniali. Non c’è nulla di cui vergognarsi a essere negati per i simulatori. O per i puzzler. O per qualsivoglia genere di gioco.

La filosofia del gameplay per tutti danneggia sia chi pretende mille modifiche non ottenendo in ogni caso l’esperienza originale, sia tutti gli altri che si ritroveranno per le mani un prodotto magari incompleto perché gli sviluppatori invece di curare la skin del boss han dovuto inserire vagonate di opzioni sperando di non scontentare nessuno. Non sto ovviamente dicendo che non dovrebbero esistere patch per bilanciare situazioni rivelatesi critiche in fase di lancio, ma bisognerebbe smetterla di prendere un videogame qualsiasi e cercare di trasformarlo nel prodotto dei propri sogni. Forse esiste già, da un’altra parte, e ce ne stiamo qui a insistere. Ve lo immaginate un comportamento del genere con il partner? Senti, non è che potresti avere gli occhi verdi? O assomigliare di più all’inarrivabile Scilla, così il Raniero Cotti Borroni che c’è me è più contento? Instasingle assicurato. E non nascondiamoci dietro l’aver pagato il gioco, forti dei cinquanta euro su duecentocinquanta milioni di budget, lo 0.00002%, con centinaia di recensioni che mettono in guardia su questa o quella caratteristica.

L’EPOCA DELL’ACCESSIBILITÀ? QUESTA? MA SE C’È SEMPRE STATA!

Una teoria abbastanza condivisa nella rete vorrebbe che tutte queste spasmodiche calibrazioni non siano ghiribizzi dei gamer ma frutto di una politica orientata all’accessibilità, per permettere ad esempio di risolvere gli adventure anche a chi non avrebbe mai immaginato che l’oggetto “chiave” si sarebbe potuto utilizzare sull’oggetto “porta chiusa”, o per garantire un minimo di sopravvivenza a chi inizia un RPG con un mago distribuendo i punti abilità sulla forza. Peggio ancora, tutto ciò viene visto come un segno dei tempi moderni, in antitesi con un presunto passato di oscurantismo videoludico in cui i poveri gamer erano abbandonati a loro stessi.

bioware casey hudson mark darrah ACCESSIBILITÀ

Non è così. I videogame sono sempre stati accessibili, ognuno nel particolare modo offerto dalla propria epoca, per giocare al meglio. Le soluzioni di Mago Merlino su Zzap! rendevano accessibili a chiunque gli adventure. Oggi si chiamano walkthrough e si trovano su YouTube, ma sono la stessa cosa. Inventatevi mille voci di configurazione del livello di sfida, e tutte mille varranno meno del peggior trainer. Per non parlare di cheat code, cartucce per dumpare la memoria e diavolerie varie. L’accessibilità è nata circa venti minuti dopo la release del primo videogame. Pensate che addirittura Moxie, nel 1983, mise in vendita – sì, in vendita! – il trainer software di Castle Wolfenstein. Ti stai annoiando con un gioco troppo difficile e vorresti annoiarti allo stesso modo, ma con un gioco troppo facile?

ACCESSIBILITÀ castle wolfenstein

Siamo il Gatto e la Volpe, ti vendiamo il trainer. Questi sviluppatori sono i miei eroi. Li immagino soccorrere disperati gamer in mare aperto, a caro prezzo, magari d’accordo con gli li aveva precedentemente lasciati al largo. Finiamola con questo accanimento videoludico, e quando un gioco non fa per noi, semplicemente lasciamolo andare. Piacerà a un altro, e noi troveremo altro.

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Quelle vite che vale la pena vivere https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/267123/quelle-vite-che-vale-la-pena-vivere/ Sat, 25 Nov 2023 10:04:52 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=267123 C’è un detto che gira da tempo nella community dei videogiocatori, prima che i meme venissero conosciuti come meme. Un detto che fa, più o meno, “Sono un videogiocatore perché non ho vissuto solo una vita, ma ne ho vissute centinaia”. Un detto che, a ripensarci oggi, sembra una di quelle cose che si postavano da adolescenti su Facebook o si mettevano come status sulla chat di MSN. Però alcune di quelle vite vale davvero la pena viverle.

L’idea di scrivere questo articolo è nata primo, beh, quando dalla redazione mi hanno detto “oh Marco guarda che adesso è il tuo turno di inventarti qualcosa per l’editoriale.” E secondo, e più importante, quando ho provato Liyla and the Shadows of War, un gioco gratuito, breve e non particolarmente complesso che vede un padre cercare di portare al sicuro una figlia. Niente scenari fantastici in questo caso, però: l’ambientazione è quella della guerra che lo stato di Israele ha mosso alla striscia di Gaza nel corso del 2014. Vedere i missili e le bombe israeliane colpire case, scuole, ambulanze, e i numeri del conflitto che appaiono sullo schermo dopo la fine del gioco, mi ha fatto tornare immediatamente alla mente quelle immagini che dal 7 ottobre in poi tutti abbiamo visto in televisione o sui social, ed è servito a ricordarmi ancora una volta che per chi vive a Gaza questa guerra non è una tragedia improvvisa e inaspettata ma solo l’ennesimo capitolo di una storia sanguinosa che va avanti da decenni.

I FRAMMENTI DELL’ANIMA

Liyla and the Shadows of War mi ha fatto tornare in mente quei giochi che, in un modo o nell’altro, mi hanno fatto sentire una connessione con le mie esperienze, o che mi hanno aiutato a capire quelle di altri. Prendiamo What Remains of Edith Finch, per esempio. Nel walking simulator di The Astronauts, Edith Finch si reca nella casa di famiglia per rispolverare quella che è stata la storia della sua famiglia. Una storia tragica: quasi tutti gli inquilini di quella particolare casa, ciascuno per conto suo, sono infatti morti.

c’è del bizzarro nella storia dei Finch, ma ciò che non è bizzarro è lo sforzo di ricostruire la vita di qualcuno che non c’è più

C’è del bizzarro nella storia dei Finch, ma quello che non è bizzarro o lontano dal mondo reale è lo sforzo di ricostruire la vita di qualcuno che non c’è più, partendo da quei frammenti della loro vita che sono rimasti e da quei ricordi che ancora sopravvivono nella nostra mente. Ripensare a Edith Finch che vaga per le stanze vuote della sua casa, ciascuna un ricordo di un membro della sua famiglia, mi ha fatto ripensare a quella valigia in soffitta dove sono conservate tante delle carte di mio nonno. Le sue pagelle, le lettere ricevute mentre era prigioniero in Germania, le fitte pagine che ha scritto sugli eventi del dopoguerra che più lo avevano colpito. Mio nonno l’ho conosciuto di persona quando ero più giovane, quindi non sono quelli gli unici ricordi che ho di lui, ma è scomparso quando ero adolescente. Ed è solo quando la gente non c’è più che ti rendi conto di non averci mai parlato abbastanza.

Meno drammatico è un altro giochino che si è ritagliato un posto speciale nel mio cuore, cioè A Short Hike. Qui interpretiamo una giovane pennuta – i personaggi di questo gioco sono tutti  animali antropomorfi – che viene portata dalla zia a fare qualche giorno di vacanza su una lussureggiante isola. C’è un problema: la protagonista sta aspettando una chiamata, ma sull’isola non c’è campo. L’unico punto dove i telefoni prendono, come le spiega la zia, è Hawk Peak, l’altissima montagna che da quel punto in poi diventerà il nostro obiettivo. Solo che scalarla non è così immediato: prima di riuscirci dovremo accumulare piume girando per l’isola e facendo le varie attività. Sono attività divertenti, cacce al tesoro, gare con altri ragazzini dell’isola, insomma tutto è volto a presentare l’isola come un luogo di pace e di svago, lontani dalle preoccupazioni di tutti i giorni. Ma, come per noi l’obiettivo sullo sfondo resta scalare quel picco, anche per la protagonista la preoccupazione legata a questa chiamata è sempre presente. Una volta giunti in cima al picco, capiremo perché: il motivo per cui ci troviamo su quest’isola assieme alla zia è che la madre si trova all’ospedale per un’operazione.

a short hike

La chiamata, per fortuna, porta buone notizie: l’operazione è andata bene, e la nostra protagonista può finalmente rilassarsi. Anche qui, lo scenario è di fantasia, ancora più di quanto fosse in What Remains of Edith Finch; ma la sensazione di preoccuparsi per qualcuno o qualcosa – un caro che deve affrontare un’operazione, certo, ma può essere anche altro – e cercare di distrarsi ma senza mai riuscirci davvero è qualcosa che di sicuro tutti prima o poi hanno provato.

CIME TEMPESTOSE

Di esempi che si potrebbero fare ce ne sono tanti – più o meno l’intero genere dei walking simulator viaggia su queste righe, fin da quel Gone Home che ne è stato uno dei capostipiti – ma quello che voglio fare è un gioco che ci porta in un contesto ancora più di fantasia rispetto ad A Short Hike, e cioè Celeste. Credo che più o meno chiunque lo conosca dato che è uno degli indie più famosi degli ultimi cinque anni, quindi perdonatemi se la spiegazione vi sembra non necessaria: Celeste è un platform in cui ci caliamo nei panni di Madeline, una giovane che vuole scalare una montagna (giuro che non l’ho fatto apposta a metterlo a fianco ad A Short Hike).

la scalata del monte Celeste diventa ben presto una metafora dei dilemmi interiori di Madeline

Mano a mano che avanziamo lungo i livelli, grazie ai vari dialoghi diventerà ben presto chiaro che la scalata del monte Celeste è una metafora dei dilemmi interiori che Madeline stessa vive nel corso della sua vita di tutti i giorni: l’ansia che la paralizza, la difficoltà di accettarsi, la sensazione di inadeguatezza. Affrontare la montagna vuole essere una sorta di resa dei conti con questi aspetti della sua personalità; resa dei conti che non sarà sempre facile. Nel gioco – credo: ammetto che le B-Side sono già al di là della mia portata – non viene mai detto esplicitamente che Madeline è una ragazza transessuale, anche se viene suggerito da qualche dettaglio in alcune immagini. Ed è difficile non immaginare che ci sia anche qualcosa di autobiografico in questo, dato che anche la mente dietro al gioco e fondatrice di Extremely OK Games, Maddy Thorson, è anche lei transessuale. Giocare a Celeste (che, al di là dei discorsi sul messaggio, è anche una bomba come gioco) ci aiuta a capire almeno in parte il processo per cui passa l’accettazione della propria identità.

celeste

Con questo, chiaramente, non voglio dire che gli unici giochi che vale la pena giocare siano quelli che per un motivo o per l’altro vanno a toccare le corde dell’anima. Ultimamente ho ripreso a giocare a Warhammer 40,000: Darktide e mi ci sto divertendo un mondo. Però di sicuro sono giochi come Celeste, come A Short Hike, come What Remains of Edith Finch e come Liyla and the Shadows of War ad aggiungere quel qualcosa in più che rende speciali i videogiochi.

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Il peggiore tra gli anni migliori per i videogiochi – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/266804/il-peggiore-tra-gli-anni-migliori-per-i-videogiochi-opinione/ Sat, 18 Nov 2023 11:19:42 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=266804 Settemila e ottocento. È questo il totale stimato dei posti di lavoro tagliati dal 1° gennaio 2023 a oggi nell’industria dei videogiochi, e l’anno non è ancora finito quindi questa cifra può ancora crescere.
Annus horribilis videogiochi Baldur's gate 3 dark urgeLo so che ve lo state chiedendo e no, questo non vuole essere un articolo fotocopia di quello scritto da Marco Bortoluzzi e pubblicato su queste pagine virtuali lo scorso settembre. Vuole più che altro provare a offrire un altro punto di vista a tutte quelle persone che giustamente affermano che il 2023 è stato uno degli anni migliori per i videogiochi. D’altronde solo quest’anno abbiamo avuto modo di giocare a una quantità tale di opere di qualità da far spavento.

Bisogna andare indietro di molti anni per trovare una concentrazione simile di videogiochi di qualità

Baldur’s Gate 3, Alan Wake 2, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, Super Mario Bros. Wonder per restare sempre in casa Nintendo, ma anche produzioni minori come Cocoon, Slay the Princess, Sea of Stars, Dave the Diver, oppure i cosiddetti doppia A del calibro di The Talos Principle 2, Hi-Fi Rush, Armored Core 6. Ne ho citati poco meno di una dozzina, ma credo di aver reso l’idea. Bisogna andare indietro di molti anni per trovare una concentrazione simile di videogiochi di qualità.

Eppure tutto questo ha un costo.

Ci piace parlare delle storie di successo. Ci piace parlare dei videogiochi che ci appassionano. Ci piace parlare degli studi che ce la fanno. Probabilmente il caso più emblematico in questo senso è quello di Larian Studios e di Baldur’s Gate 3. È una storia perfetta che ho già avuto modo di raccontare in un approfondimento pubblicato proprio a ridosso del lancio di quello che – di fatto – è già per molti il gioco dell’anno. Eppure per ogni Larian Studios che ce la fa, ci sono decine, se non centinaia di società che gettano la spugna (o vengono costrette a farlo). È così in tutti i campi della vita, ma quest’anno abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione che quello dei videogiochi non un mondo idilliaco, semmai avessimo avuto bisogno di una conferma.

L’ANNUS HORRIBILIS DELL’INDUSTRIA DEI VIDEOGIOCHI

Settemila e ottocento, appunto. Settemila e ottocento persone che hanno perso il lavoro quest’anno secondo VideogameLayoffs. Sì, la situazione è talmente drammatica che qualcuno ha deciso di tenere il conto di tutti i licenziamenti avvenuti negli ultimi dieci mesi e mezzo. Ci sono aziende che sono state chiuse o hanno cessato l’attività, come Volition e Mimimi, ma ci sono anche colossi come Unity ed Epic Games che affettano centinaia di posti di lavoro con la stessa nonchalance con cui mia madre taglia la cipolla per il sugo della domenica. Senza lacrime, però, tanto sai quanto gliene frega ai capoccia che comunque intascano i premi di produzione?

Licenziamenti videogiochi

Le principali società interessate dai licenziamenti. (Fonte: VideogameLayoffs)

Eppure i segnali di questa crisi erano chiari già da tempo. Molti anni fa uno Shawn Layden appena fuoriuscito dall’organico di Sony disse che i costi di sviluppo dei cosiddetti tripla A sarebbero cresciuti così tanto da rendere tali progetti insostenibili. Avanti veloce e ci troviamo proprio nella situazione ipotizzata da Layden: produrre e sviluppare un videogioco costa così tanto che basta un passo falso per compromettere la stabilità di un’azienda. È successo nel caso di The Callisto Protocol, per esempio, con il publisher Krafton che ha tagliato il personale di Striking Distance Studios dopo il flop dell’action a tinte horror. È successo con Volition, chiusa da Embracer (anche) a causa di quel disastro che risponde al nome di Saints Row. Ma è successo qualcosa di simile anche a Mimimi, che nonostante molti giochi di successo (compreso l’ultimo Shadow Gambit) ha deciso di abbassare la saracinesca per via del troppo stress legato alla ricerca di finanziamenti e dei costi sempre più alti.

La bolla dei live service si sta sgonfiando

Nel frattempo le grandi aziende hanno iniziato a puntare sui live service, peccato che anche quella bolla si stia sgonfiando sempre più velocemente. E infatti Epic Games si trova in difficoltà ora che Fortnite non riesce più a coprire i costi sostenuti dal resto della società, compreso lo store proprietario che è ancora in perdita. Sony ha dovuto rivalutare i piani per i suoi videogiochi multiplayer, mentre Bungie – ora nella famiglia PlayStation – ha licenziato un centinaio di persone.

Embracer non esclude ulteriori licenziamenti dopo aver mandato a casa ben 900 persone.

All’interno di questo scenario, come se nulla fosse, l’industria dei videogiochi si prepara a celebrare sé stessa durante i consueti The Game Awards. Sarà interessante vedere come Geoff Keighley affronterà la questione, semmai dovesse farlo, prima di sopraffare gli spettatori con decine di trailer e pubblicità varie, tra un’inutile premiazione e l’altra. Magari una statuetta andrà proprio a Bungie, in lizza con Destiny 2 nella categoria “Best Community Support” a poche settimane dal licenziamento dei community manager dello sparatutto online. Perché oltre al danno non potevamo farci mancare la beffa.

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L’horror d’autore (e di genere) sta proliferando nei videogiochi – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/266405/horror-orrore-dautore-contaminazione-genere-videogiochi/ Sat, 11 Nov 2023 10:35:33 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=266405 Ari Aster, Robert Eggers, Jordan Peele, Mike Flanagan. Quattro nomi che, se vi interessate anche solo superficialmente di cinema, avrete sicuramente sentito nominare. Esponenti di spicco, sicuramente i più popolari, del così detto “elevated horror”, pellicole horror d’autore che negli ultimi anni sono diventate un vero e proprio fenomeno del grande schermo, capaci di reinterpretare il genere a livello audiovisivo ma, soprattutto, di utilizzarne il classico linguaggio per dare vita ad efficaci allegorie, dove l’orrore di relazioni tossiche, drammi familiari, sistemiche questioni sociali e patologie mentali diventa parte di un racconto dove lo spavento, il disgusto e la tensione non sono più fini a sé stessi, ma vengono utilizzati per turbare lo spettatore decisamente più in profondità, spingendo alla riflessione.




Non che non lo si facesse già in passato, però insomma, la quantità e la qualità di questa particolare declinazione di horror, negli ultimissimi anni, è stata stupefacente. Viviamo in un periodo di rivalutazione ed elevazione di un genere considerato (spesso a torto) per lo più trash, “divertente”, da serata con gli amici e il mercato videoludico ha dato una grossa mano a questa rinascita culturale.

L’HORROR DI ALAN WAKE II

Quello che sta suscitando Alan Wake II è sotto gli occhi di tutti e, d’altronde, già il primo capitolo fece molto scalpore, 13 anni fa, pur con tutti i problemi di uno sviluppo a dir poco complesso. Lo stesso Hideo Kojima ci aveva provato col mai-nato Silent Hills, a giocare in questo campo, riversando poi parte della sua visione horror in Death Stranding, dove il terrore di un mondo isolato, privo di comunicazioni e contatti sociali (che quasi profetizzava in certi aspetti il periodo pandemico che avremmo vissuto di lì a pochi mesi) si mescola a quello più tangibile e fisicamente pericoloso delle BT che infestano le lande desolate di questi Stati Uniti post-stranding, dando vita ad un’atmosfera unica, appiccicosa, dove muoversi in silenzio e in punta di piedi. Lake, Kojima ma anche Sam Barlow, che nell’orrore di Silent Hill ci è invece nato professionalmente, arrivando poi, da indipendente, a coronare il suo percorso da “giallista” di Full Motion Video con quel capolavoro di Immortality; sovrannaturale, conturbante, angosciante e magnetico, elegantissimo nel modo che ha di iniettare sottocute una paura intangibile, sussurrata, quella tipica del mistero e dell’insondabile, nonostante un gameplay che ci mette nei panni di una persona estranea ai fatti, lontana dai set di quei film maledetti. Quello che sorprende è la varietà di generi e design che è possibile utilizzare per creare, oggi, un horror videoludico efficace.

La pioggia e il silenzio che avvolgono il manifestarsi delle BT in Death Stranding rimane uno dei momenti più intensi della recente storia videoludica.

La formula del survival horror puro non basta più, oltre ad essere fortemente limitante se si vogliono affrontare certi tipi di discorsi. Probabilmente anche Remigiusz Michalksi era di quest’idea, nel 2012, quando creò il conturbante immaginario di The Cat Lady. Un punta-e-clicca dallo stile estetico fortemente disturbante e dalle meccaniche non particolarmente innovative che, però, riuscivano a veicolare un racconto emotivamente violentissimo, capace di toccare con cognizione di causa argomenti come depressione, suicidio, violenza sessuale e malattia terminale, collegati dal fil rouge della vendetta, accompagnando Susan Ashworth nella sua missione di morte, uccidendo uno a uno personaggi che incarnano il peggio dell’umanità.

The Cat Lady è uno dei titoli più disturbanti che abbia mai provato, davvero devastante.

È un fatto che, negli ultimi anni, il videogioco si stia confermando il modo migliore per raccontare la paura, soprattutto per la componente interattiva che accende nel giocatore un panico, un’urgenza, una gestione del ritmo impossibili (o quasi) da replicabile nella pur coinvolgente passività cinematografica, anche quando si parla di titoli di genere. Prendiamo The Medium di Bloober Team, che non è un titolo da museo o che viene in mente per primo quando si vuole consigliare un titolo horror. Sarebbe un buon film o una buona serie TV, probabilmente; è scritto bene, sta in piedi, ma in quel formato ce ne sono parecchie di storie simili. È nella sua forma videoludica che la scrittura viene esaltata, con la sua capacità di narrare attraverso l’ambiente (quello della periferia polacca), di dare tempo al giocatore per esplorare, assorbire dettagli, per poi concentrarsi sulla caratteristica meccanica ludo-estetica delle dimensioni parallele e contemporanee, costruendoci attorno enigmi intuitivi ma ben studiati, fluidi, mentre la tensione sale e la sensazione di essere osservati diventa sempre più tangibile.

L’INCUBO OVUNQUE

The Medium non è certo un gioco difficile, anzi: punta tutto sulla storia. C’è chi, grazie alla difficoltà proibitiva, riesce a trasmettere benissimo il suo messaggio. Darkest Dungeon di Red Hook Studios è uno dei migliori titoli d’ispirazione lovecraftiana mai creati, e non certo per la sua ottima componente audiovisiva. Avventurarsi in un labirinto espone i personaggi a malattie, fisiche e soprattutto mentali, che ne acuiscono i tratti più distorti delle loro personalità, influenzando il gameplay e mettendo costantemente a rischio la sopravvivenza del party nei feroci scontri contro le mostruosità che si annidano al loro interno. La morte permanente, le psicopatologie, il costante desiderio di scoprire cosa si nasconde nel buio, quasi irraggiungibile per design, con una difficoltà volutamente sconfortante, capace di simulare quei racconti in cui la verità non viene mai a galla, col protagonista che perisce, misteriosamente, ad un passo dal trovarla, risucchiato negli abissi dell’orrore.

Immortality è un’esperienza difficilissima da raccontare, una di quelle opere capaci di restare addosso e perseguitare i giocatori anche giorni dopo la conslusione

Io ho sempre detestato i survival horror, perché semplicemente mi mettono troppa ansia, non li ho mai trovati piacevoli, nonostante consumi, fin da giovanissimo, letteratura e cinema del genere con una certa disinvoltura. Ecco, questo strabordare dell’horror fuori dai confini di saghe strafamose come Resident Evil, Silent Hill, Forbidden Siren, ha sicuramente permesso a chi soffriva determinate situazioni di godere del genere in formato visual novel, RPG, avventura grafica, walking simulator, arrivando certamente a un pubblico più ampio, esattamente come è successo al cinema per chi era stanco (o non ha mai apprezzato) di vedere squartamenti, slasher, apocalissi zombie, dando al tempo stesso in pasto agli appassionati nuove idee, interpretazioni, argomenti, gameplay. Questa contaminazione, per me, è sempre un bene, anche perché la qualità delle opere è qui a dimostralo e, ancora di più, è un bene per l’horror, arrivato ad una maturità e una qualità totalmente inediti finora. La bellezza del terrore.

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Cosa può fare la critica per i videogiochi? – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/266037/cosa-puo-fare-la-critica-per-i-videogiochi-opinione/ Sat, 04 Nov 2023 11:01:24 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=266037

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

Circa 3 miliardi di persone (su 8) giocano ai videogiochi. Cosa possiamo fare per far giocare gli altri 5? E soprattutto, cosa dobbiamo fare per fare in modo che chi sta già giocando riconosca i videogiochi come arte e cultura?

Lo scorso weekend ero a Trieste per gli IVIPRO DAYS. Sono stati due giorni di panel e interventi sulla Game Culture in generale, ma per forza di cose a rimanermi più addosso è stato il talk “Divulgare i videogiochi” del sabato mattina. Il discorso ruotava attorno al ruolo di critici e content creator in generale e alla responsabilità di queste figure nei confronti del pubblico dal punto di vista della consapevolezza del medium. Finiti gli interventi c’era uno spazio per le domande della platea. È a quel punto che mi sono reso conto di non avere nessuna domanda da fare, ma diverse considerazioni. Ed eccomi qui, signor giudice.

 A CHI PARLA LA CRITICA?

La prima cosa da fare è chiedersi come il videogioco sia riuscito a raggiungere 3 miliardi di persone, diventando ad oggi un’attività che oltre il 40% della popolazione mondiale svolge. Questo non è successo grazie a PlayStation e Xbox. Per quanto le console abbiano giocato un ruolo culturale importantissimo (PlayStation è per esempio la macchina che ha permesso al videogioco di non essere più comunicato e distribuito come giocattolo) parliamo di piattaforme capaci di raggiungere una o due centinaia di milioni di giocatori ad ogni generazione. Fisiologico, visto che giocare su console (e in buona parte anche su PC) implica acquistare una macchina ad-hoc da destinare soprattutto all’atto di videogiocare.

La prima cosa da fare è chiedersi come il videogioco sia riuscito a raggiungere 3 miliardi di persone

Se Bill Gates nel 1975 vedeva nel futuro “un computer su ogni scrivania e uno in ogni casa”, l’essere umano è andato oltre. Oggi abbiamo un “computer” in ogni tasca, ed è un dispositivo da cui passa tutta la nostra vita. E quindi se nel 1994 Microsoft sfruttava i videogiochi per diffondere il suo nuovo sistema operativo a botte di porting di DOOM e introducendo le DirectX oggi la situazione si è invertita e il cavallo di Troia è lo smartphone. L’8% del tempo speso usando lo smartphone è dedicato al giocare, e da questi dispositivi passano il 77,7% dei ricavi dell’industria. Eppure quando parliamo di videogiochi ci rivolgiamo ad un pubblico che utilizza tastiere e controller, e molto spesso ignoriamo il mobile anche quando si tratta di manovre come l’acquisizione di Activision-Blizzard-King. Per mesi ci si è preoccupati del futuro di Call of Duty, ma il vero colpo di Microsoft è stato portarsi a casa Candy Crush.

Il paradosso è questo: la critica (o quantomeno, quella che definiamo tale guardando a testate di settore e content creator) parla ad una nicchia specifica di pubblico. All’interno di questa nicchia però prova a raggiungere disperatamente chiunque ne faccia parte. Il risultato è quello di ragionare sui grandi numeri e, in un certo senso, di provare a dare alla gente quello che vuole. È anni che ci si racconta di come l’approfondimento non abbia mercato perché la news di attualità  di turno genera dieci volte gli accessi di una retrospettiva su Ghost ‘n Goblins, senza però andare a indagare i perché dietro questi numeri.

È anni che ci si racconta di come l’approfondimento non abbia mercato perché la news di attualità  di turno genera dieci volte gli accessi di una retrospettiva su Ghost ‘n Goblins

È evidente che l’approfondimento non sia per tutti, trattandosi di contenuti verticali che vanno in profondità delimitando il pubblico potenziale (io che non gioco a Ghost ‘n Goblins lecitamente non sono interessato, per esempio). Ma dall’altra parte se il contenuto medio che viene proposto da una pubblicazione o da un canale è legato alla notizia o alla curiosità, è davvero così sorprendente che i lettori preferiscano questi agli approfondimenti verticali? Chiaro, specie considerando che poi a queste latitudini parliamo una lingua che raggiunge 70 milioni di persone scarse, bisogna entrare nell’ordine di idee che l’approfondimento non farà mai i click (o le visualizzazioni, o i like, quello che vuoi) di altri contenuti. L’errore però a questo punto è fare questo tipo di proposta in un business model che premia quelle metriche. Quelle metriche si inseguono sia per la “mipiacina” che rilasciano che per i ricavi che potenzialmente generano grazie alla pubblicità. Ma 300 persone disposte a sottoscrivere un abbonamento di 5€ al mese genererebbero comunque un introito di 1500€. È una strada che peraltro il game dev sta già percorrendo da un po’, con sviluppatori che decidono di rilasciare i loro lavori in abbonamento o più in generale chiedono il supporto della loro community in cambio di qualche benefit e l’accesso al server Discord per i paganti. HopFrog, la mente dietro Forager, ne è un esempio.

FUORI DAL LETTO NESSUNA PIETÀ

Durante il panel che citavo all’inizio si è portato l’esempio di una tattica di “guerriglia divulgativa” che prevede l’inserimento (quasi a tradimento) di tematiche culturali in pezzi che riguardano i videogiochi. Sto parlando di Final Fantasy 7 Remake, e allora inserisco degli approfondimenti sull’ecoterrorismo. Oltre ai problemi di cui sopra (ovvero il proporre questi contenuti di fianco ad altri “cotti e mangiati” e il parlare solo con una nicchia di persone all’interno della platea) questa strategia non affronta l’elefante nella stanza, ovvero il problema da cui a cascata derivano quasi tutti gli altri problemi che i videogiochi soffrono a livello culturale. Si continua a parlare a gente che ha già in un certo senso accettato il videogioco, e anche se magari non lo considera davvero arte o cultura e vorrebbe la politica fuori da Call of Duty (oh, piccolo figlio dell’Estate…) riconosce al medium una certa importanza. Importanza che buona parte dei 5 miliardi di popolazione che ad oggi non gioca non percepisce.

Entriamo in contatto con tutte e sette le altre arti già durante il nostro percorso di studi. A scuola ci fanno leggere, sono previste delle ore di Musica e nel corso di un anno scolastico un paio di capatine nell’aula Cinema si fanno. Entrare in contatto coi videogiochi invece è molto più improbabile, e statisticamente quando succede è perché è il videogioco stesso ad essere sceso a compromessi “marketizzandosi” come il gioco dedicato a questo o a quel museo o aggiungendo l’etichetta “serious” prima di quella “game”. Venendo meno la scuola, si rimane ostaggio di quello che il mainstream decide di proporre e su cui investe (con la sicurezza di avere un ritorno).

Venendo meno la scuola, si rimane ostaggio di quello che il mainstream decide di proporre e su cui investe

È come se alle medie invece della Commedia di Dante si leggesse la saga di Twilight, o qualunque cosa sia diventata pop in spregio di quello che può essere il suo valore o il suo messaggio. Non è un problema da poco. Ricordo che alle elementari per una recita di Natale ci avevano fatto imparare Imagine di John Lennon. Ricordo che non avevo capito perché ad un certo punto un verso recitasse “imagine no religion”. Ricordo di essermelo chiesto, e di averlo alla fine capito proprio perché mi stavo facendo quella domanda. Perché lo stesso dubbio vale di meno, se a suggerirmelo è Metal Gear Solid 3?

La critica dovrebbe provare a parlare anche con chi non gioca. Scrivere di ecoterrorismo e poi infilarci a tradimento Final Fantasy 7, oltre a fare il contrario. Mostrare come l’attualità si rifletta nei videogiochi, sfruttarla per far venire il dubbio a chi ha deciso che il pad e/o la tastiera non sono cose sue che forse si sta perdendo qualcosa di grosso, che a volte sa essere anche meraviglioso. Sui giornali si racconta sempre di quanto i DOOM e i Grand Theft Auto siano mandanti di stragi. Succederebbe molto meno, se ci abituassimo a parlare di quella volta che Hideo Kojima ci ha spiegato John Lennon attraverso The Boss.

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Fisico o digitale? – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/265658/fisico-o-digitale-lopinione/ Sat, 28 Oct 2023 08:12:14 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=265658 Fisico o digitale? Indovinate un po’, una risposta alla domanda posta in questo editoriale non c’è, bensì l’uscita di Alan Wake 2, che come ben sapete è attualmente disponibile esclusivamente in formato digitale (e chissà se in futuro non verrà distribuita anche una versione retail) è uno spunto perfetto per prendere la palla al balzo e provare ad analizzare uno dei quesiti che più tiene banco negli ultimi anni, che ha avuto un focus maggiore proprio nel 2020, con l’arrivo della pandemia mondiale di Covid-19.

CHIUSI IN CASA, NETFLIX, PIZZA E DIGITALE

Ancor più di Alan Wake, nel 2020 abbiamo visto l’uscita di due giochi estremamente importanti: Final Fantasy VII Remake e The Last of Us Parte 2.

Non fu un periodo semplice per i giocatori

Ricordo come se fosse ieri uno dei problemi paventati dagli stessi publisher e sviluppatori, ovvero la possibilità che la distribuzione dei giochi potesse trovarsi un bastone tra le ruote, quello della reperibilità, motivo per cui tantissimi utenti, già chiusi in casa e impossibilitati a uscire a causa delle norme governative che ci vietavano spostamenti superflui. E per quanto si potesse pregare tutti i santi in cielo nello spiegare alle forze dell’ordine che uscire a prendere quel gioco dal nostro rivenditore di fiducia era davvero una questione di vita o di morte, non valeva la pena beccarsi una multa per stupidità ingiustificata.

Il periodo magico – più o meno – in compagnia di The Last of Us: Parte II.

Il mercato del digitale nel 2020 ha avuto un’impennata pazzesca, trovando anche nei fedeli incrollabili delle edizioni fisiche un solido compromesso, con gli acquisti in digitale dei giochi per forza di cose, ma appena possibile la copia fisica l’avrebbero subito comprata. In molti poi hanno ipotizzato le vendite in digitale aumentate per via della situazione mondiale inedite, ma ad oggi, i dati di vendita, sembrano confermare questo trend, con le due soluzioni che corrono in parallelo, senza mai superarsi, con un pubblico che sembra adottare entrambe le soluzioni, senza problemi di sorta.

COLLEZIONISTI PURI, TRA FISICO E DIGITALE

Sono un ex collezionista di carte Pokémon e metto subito le mani avanti dicendo che non ho voltato le spalle aderendo al lato oscuro del digitale, bensì trovandomi in una situazione dove mi capita di dover giocare e recensire dei giochi, questi mi vengono distribuiti tramite codici che riscatto, dunque gioco X o Y che sia, su PC o console, è sempre in formato digitale.

Il collezionismo sul fronte console mi ha dato poche soddisfazioni pur avendoci provato

Non nego che all’inizio questo aspetto un po’ mi stava stretto. Tendevo a collezionare oggetti per cui un domani li avrei rivenduti al doppio del prezzo e ho ancora giochi originali in perfette custodie PlayStation che custodisco gelosamente. Detto questo, però, non sono un collezionista per quanto riguarda il settore videoludico, perché al netto della conservazione di un gioco, dell’imballo come della custodia, o semplicemente di una console, trovo poi estremamente difficile o di nicchia la possibilità di far partire gioco X su una console Y. Tanto per fare un esempio, quasi come se fosse un segno divino, quando presi al day one la PlayStation 5, la precedente PS4 smise definitivamente di funzionare appena un mese dopo. Una cosa pazzesca, inaspettata e totalmente fuori da ogni più rosea aspettativa. Se fosse sceso un santo a darmi cinque numeri buoni da giocare al Lotto non gli avrei mai creduto o dato retta, figurati credere che dopo anni di fedele servizio, la mia PS4 sarebbe deceduta proprio accanto alla sua sorella più grande.

Alan Wake 2 uscita

Alan Wake è un videogioco TOTALMENTE in digitale. Per ora.

Nel 2010 provai a riesumare il NES che mio padre mi comprò quando ero piccolo. Nulla. L’ultima volta che lo avevo riposto, una manciata di anni prima, funzionava, anche la cartuccia di Kirby’s Adventure dava segni di vista palesi, poi più nulla. Di contro però, un po’ ammaccato, con parti del vetrino dello schermo che continuano a staccarsi, il primo Game Boy, mattone blu, ancora funziona, con quella spia rossa che ogni tanto sembra pronta a spegnersi definitivamente, ma ancora regge botta.

ammaccato con parti del vetrino dello schermo che continuano a staccarsi, il mio primo Game Boy, mattone blu, ancora funziona

Insomma, il collezionismo sul fronte console mi ha dato poche soddisfazioni pur avendoci provato, portando a non focalizzarmi troppo su questa attività. PSX, PS2, la prima Xbox, il SEGA Saturn, tutte irrimediabilmente non più funzionanti dopo che le avevo riposte con grande amore nelle sue scatole e riesumate anni dopo. Basta. Con le carte Pokémon invece ho fatto un affarone, vendute tutte e ricavato più di 3000 Euro.

UNA SCELTA ARDUA

Invidio tutte quelle persone che hanno cantine, scaffali, intere stanze piene di scatole, giochi, console. Una realtà che avrei voluto fare mia, ma almeno nel contesto videoludico non riesco a fare mio, almeno in parte, perché la bellezza di avere un qualcosa tra le mani, a seconda del pragmatismo materiale di ognuno di noi, è estremamente impagabile. Sono uno di quelli che quando compra un libro nuovo, toglie la plastichina (se presente) e comincia a sfogliarne le pagine per sentirne l’odore e faccio lo stesso anche quando compro un gioco: lo tocco, lo apro e sento l’odore del blu-ray uscito da un mix di industria e chimica. Mai avrei pensato di citare Vittorio Sgarbi in un articolo su TGM, ma il rapporto che ho con questi oggetti, libri, blu-ray di film e gli stessi videogiochi è altamente erotico e se si deve parlare di arte in tutto ciò, il rapporto erotico o meno che abbiamo con questi oggetti è la rappresentazione tangibile dell’arte del medium.

Immaginate Elden Ring sotto forma di contenuto digitale su… che so, un qualunque abbonamento?

L’altra parte della medaglia è per la maggior parte rappresentato da quelle critiche pigre e mal contestualizzate che vedono il pubblico dedito all’acquisto digitale come pantofolaio, di una generazione figlia di video su YouTube e TikTok, che hanno tutto sul palmo della loro mano con smartphone, Netflix e cibo che arriva direttamente alla nostra porta. Discorsi su quanto “si stava meglio prima” evocano il piccolo boomer che è in ognuno di noi e che inevitabilmente spunta fuori in situazioni del genere. Ma dopo aver fatto una panoramica simile, dove si può trovare una conclusione soddisfacente?

DUNQUE?

Come detto in apertura, una soluzione a questa domanda, a cosa sia meglio tra uno o l’altro, è davvero difficile da trovare in modo definitivo; semplicemente perché queste scelte sono al pari del classico dilemma tutto italiano: pasta o pizza questa sera? Abbiamo gusti visivi e papille gustative che rispondono in modo diverso e come tale, il formato fisico e quello digitale sono due pietanze che presentano pro e contro in modo equilibrato e distinto.

due pietanze con pro e contro equilibrati e distinti

L’errore comunque che mi capita spesso di vedere è di come si pensi – erroneamente – che la propria posizione possa essere quella baciata dalla luce, mentre tutto il resto sia sbagliato. Il pubblico come tale cresce, cambia, si approccia in un contesto assolutamente diverso da quello di un 20 o 30 anni fa.

O magari immaginate un Final Fantasy senza copia fisica o collector.

Un adolescente che si affaccia oggi al mondo dei videogiochi per forza di cose troverà più veloce e smart la proposta digitale, ma come spesso capita, è il tempo che poi aiuterà a far maturare il pubblico per poi portarlo ad un gusto nell’approcciarsi a questa o l’altra passione. Converrete poi che in questo spazio ci ritroviamo anche le disquisizioni sul vero problema di questa industria, ovvero la preservazione dei giochi vecchi.

Un adolescente che si affaccia oggi al mondo dei videogiochi per forza di cose troverà più veloce e smart la proposta digitale

Dove la retrocompatibilità non è una scienza esatta al 100%, come già detto prima, è nei giochi del NES presenti. A meno di non avere una console Nintendo funzionante, rimangono cartucce bellissime da vedere, tramutandosi improvvisamente in semplici oggetti da collezione. E sorvolo sui metodi ufficiali.

Figment 2: Creed Valley

Lo scenario indipendente, invece, offre ai giocatori diverse opere completamente digitali. Figment 2: Creed Valley è l’esempio perfetto.

Parliamone dunque, discutiamone, senza dover puntare il dito, dire cosa è giusto e cosa no, con la consapevolezza che questa “diatriba” probabilmente non troverà mai fine, e può essere d’aiuto sapere il feedback generale del mondo che usufruisce di questo e quell’altro per portare anche publisher e sviluppatori a comportarsi di conseguenza. Cresciamo assieme in questo periodo di forti cambiamenti, scambiamoci opinioni, esperienze per trovare un punto comune. Possiamo farlo. Lo abbiamo sempre fatto, in particolare i videogiocatori PC che ormai vivono perennemente nel mondo digitale senza strapparsi più i capelli.

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Call of Nostalgia – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/265337/call-of-nostalgia-lopinione/ Sat, 21 Oct 2023 09:38:42 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=265337 Call of Duty è un franchise vecchio. La prima volta che ci ho giocato andavo alle elementari, girava su una PlayStation 2 e si sparava ai nazisti. È vecchio al punto da essere stato nominato nel pessimo doppiaggio italiano delle prime stagioni di The Office US, dove hanno pensato bene di tradurlo come “Chiamata alle Armi”. Di fatto sono vent’anni che generazioni su generazioni di videogiocatori si sparano addosso nelle mappe virtuali di questa serie, che in qualche modo riesce sempre a tirare avanti. O con le idee, o con la nostalgia. Ultimamente soprattutto con la nostalgia.




La scorsa domenica ho fatto partire la open beta di Modern Warfare 3, sollecitato da un amico. Per chi non fosse aggiornato, non si tratta dell’ omonimo gioco del 2011, ma del terzo capitolo di un reboot della saga interna Modern Warfare, partito nel 2019. In pratica una sorta di mega operazione nostalgia portata avanti in più anni e in più giochi.

La cosa che hanno sicuramente capito, già prima di Warzone, è che la nostalgia vende

Tutto sommato neanche una brutta operazione, viste le diverse idee interessanti che hanno tirato fuori. Nel mezzo c’è stato Warzone, che è esploso tra le mani di Activision all’improvviso durante la pandemia, ed è immediatamente diventato prioritario. Proprio ciò di cui c’era bisogno per mandare avanti la serie per altri 10 anni sulla rendita del successo. E delle cose buone di questa saga reboot forse ci siamo anche un po’ scordati.

Call of Nostalgia

Forse se n’è scordata pure Activision. La cosa che hanno sicuramente capito, già prima di Warzone, è che la nostalgia vende. Nella già storica prima mappa della battaglia reale, Verdansk, che durante il lockdown è stata teatro delle nostre ore d’aria virtuale, era stata innestata Scrapyard, mappa di Modern Warfare 2 (2009). E già quella era una bella passeggiata sul viale dei ricordi. Allo stesso modo, Nuketown negli anni è stata riproposta svariate volte in svariati capitoli. Ma adesso, sulla beta del terzo capitolo di un reboot nostalgico, ho trovato, in pratica, solo nostalgia.

MY CALL OF NOSTALGIA

Le mappe su cui si potevano provare armi e modalità erano Highrise, Skidrow, Favela, Estate, Terminal e Rust. Vi dicono nulla? Se avete bazzicato il mondo degli sparatutto multiplayer tra la fine degli anni ‘00 e l’inizio dei ‘10 sicuramente le avete riconosciute: vengono tutte da Modern Warfare 2 (2009). E la verità è che quando domenica il mio amico, con cui giochiamo insieme da quindici anni, mi ha detto di scaricare la beta per giocarci assieme – “che ci stanno le mappe storiche” – il mio pensiero è stato “wow, figo”. So che in fondo è un trucco, vogliono proprio vendere il gioco ai nostalgici come me.

Se avete bazzicato il mondo degli sparatutto multiplayer tra la fine degli anni ‘00 e l’inizio dei ‘10 sicuramente le avete riconosciute

So che è un pigro riciclo di mappe vecchie di quindici anni che tradisce il fatto che il gioco sia all’incirca rimasto uguale dal 2009. Se queste mappe vanno ancora bene oggi, significa che il gameplay di Call of Duty in fondo non è tanto diverso da allora, la mobilità è la stessa, il modo di sparare più o meno pure. E tutto sommato va bene così, mi va bene così. Perché ho fatto partire la beta e non me n’è fregato nulla di tutti questi pensieri. Ho pensato solo a quanto fosse bello e straniante tornare a correre all’impazzata per le viuzze strettissime di Favela. A quella volta che ho chiamato la nuke stazionando al secondo piano della villa in Estate e quel secondo piano sta ancora lì, ci sta pure la vasca dove da sdraiato guidavo il pavelow. Ho pensato a quanto sia caotico un deathmatch su Rust oggi come allora, e tutto sommato va bene uguale. A quanto sia agrodolce venire ucciso dal cecchino che in Highrise sfrutta quella microscopica visuale da spawn a spawn che c’era quindici anni fa e c’è ancora.

Ho pensato che con questo amico con cui ho provato la beta abbiamo fatto cinque anni di liceo gomito a gomito. Giocavamo il pomeriggio a casa mia, a casa sua, poi la sera on line. Sono passati quindici anni e quando possiamo ci vediamo sempre, nonostante la distanza. Tipo quella volta che gli ho fatto da testimone di nozze. Ci sentiamo sempre, anche a distanza, come quella volta che mi ha chiamato per dirmi che sua moglie aspettava un maschietto.

Una trappola studiata a tavolino per monetizzare la nostalgia, ma pur avendolo compreso mi sta bene così

Oppure questa volta, domenica, che mi ha scritto per giocare un paio di deathmatch online, come quindici anni fa, sulle stesse mappe di quindici anni fa. Call of Duty è un franchise vecchio. E in fondo nel frattempo sono invecchiato anche io. So di essere caduto in una trappola studiata a tavolino, dell’azienda che vuole monetizzare proprio la mia nostalgia di un tempo che non c’è più e non tornerà indietro. Però, alla fine, mi sta bene così. Non sempre la nostalgia è negativa, non tutta.

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Perché non ci piacciono più i videogiochi – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/264934/perche-non-ci-piacciono-piu-i-videogiochi-lopinione/ https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/264934/perche-non-ci-piacciono-piu-i-videogiochi-lopinione/#comments Sat, 14 Oct 2023 11:41:12 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=264934 Perché non piacciono più i videogiochi? Eppure, il metroidvania sta vivendo i suoi anni di massimo splendore. Sono tornati i punta-e-clicca a la Lucas Art, i platform 3D collect-a-thon, Nintendo sta addirittura tirando fuori quello che sembra a tutti gli effetti Super Mario Bros. 4 sotto mentite spoglie. E allora perché ci preoccupiamo ancora di poter perdere generi e attitudini nei videogiochi?




È incredibile come un medium fondamentalmente incapace di preservare sé stesso sia riuscito a recuperare interi generi nel giro di un paio di generazioni. Da una parte ci sono le Konami e le Square Enix che distruggono i sorgenti dei loro classici (per fare spazio sui server? Per tutelare il segreto industriale? Non lo sapremo mai) e si trovano a pubblicare, per esempio, una HD remastered di Silent Hill 2 senza la nebbia che lo ha reso… beh, Silent Hill 2. Dall’altra invece c’è la scena più o meno indie, dove anche se ti chiami Yacht Club Games e non di certo Capcom puoi permetterti di ritirare fuori idee e stilemi delle epoche NES e SNES partorendo quel brillante incrocio tra Ducktales e Mega Man.

Oggi sul mercato si trova di tutto

Oggi sul mercato si trova di tutto: l’offerta più agée non è più limitata a collection e raccolte nostalgiche, c’è tantissimo spazio anche per opere retro inspired che suonano come cover musicali dei titoli del passato. Qualcuno addirittura prova a svecchiare e reinventare i classici, pensa per esempio a come Hyper Light Drifter (o Tunic, o Unsighted…) reimmaginino il canone settato dai capitoli classici di Zelda. Insomma, dal punto di vista dell’offerta non c’è mai stato un periodo migliore di questo per giocare. E allora perché siamo sempre così dannatamente insoddisfatti?

RETURN TO NOSTALGIA, ESCAPE FROM MONKEY ISLAND

Dopo aver lavorato a The Cave con Double Fine nel 2013 di Ron Gilbert si erano sostanzialmente perse le tracce. Di più, sembrava proprio completamente sparito quel modo di fare avventure grafiche, soppiantato quasi in toto dagli Interactive Drama ad alto budget di David Cage o dall’approccio episodico della prima Telltale Games. Nel 2017 però esce finalmente Thimbleweed Park (apparso la prima volta su Kickstarter sulla fine del 2014), che per tantissimi versi è il ritorno di Ron Gilbert a quella che è la sua zona di comfort.

Thimbleweed Park è a tutti gli effetti quella che poco fa definivo cover – in senso musicale. È un’opera che si rifà al Ron Gilbert anni ‘90

È improprio definire “pixel art” la veste grafica dei classici Lucas Art (che era a tutti gli effetti la computer-grafica dell’epoca), ma viene identificata come tale da tantissimi appassionati e la scelta di realizzare in quel modo Thimbleweed Park non è casuale. Thimbleweed Park è a tutti gli effetti quella che poco fa definivo cover – in senso musicale. È un’opera che si rifà al Ron Gilbert anni ‘90 di Maniac Mansion e Monkey Island, riproponendone l’umorismo e i nonsensi ignorando deliberatamente che alla fine sono stati proprio quei nonsensi a confinare i punta-e-clicca in una nicchia scomparsa per tantissimi anni. Thimbleweed Park soprattutto funziona: ha funzionato su Kickstarter, dove ha raccolto quasi 400mila dollari, e funziona sugli store digitali riuscendo ad arrivare su praticamente tutte le macchine da gioco contemporanee (e guadagnandosi anche una release fisica firmata Limited Run Games). Funziona così bene che è qui che forse nasce l’idea di fare un passo oltre la cover musicale e rimettere insieme la band, o quantomeno pubblicare un sequel del suo ultimo album. Si prova e si riesce a tornare a Monkey Island. E iniziano i problemi.

Return to Monkey Island genera immediatamente due reazioni opposte. Da una parte è la realizzazione di un sogno lungo più di vent’anni, la possibilità finalmente di vedere il Monkey Island 3 di Gilbert e scoprire finalmente il segreto – cosa di cui post-release s’è parlato sorprendentemente poco, vista la lucidità con cui Gilbert ha affrontato la cosa. Dall’altra però la direzione artistica proprio non piace. Il grande pubblico dei nostalgici vorrebbe qualcosa più vicino a quello che Gilbert aveva lasciato in Lucas Art, quasi a volerlo costringere in quella zona in cui Thimbleweed Park aveva preso residenza e il suo pubblico con lui. Quando questo non succede si passa alle minacce di morte, perché semplicemente l’idea di un nuovo Monkey Island non basta: vogliamo un nuovo vecchio Monkey Island, perché il metadone e le cover musicali non ci bastano più. Poco importa appunto quello che Return to Monkey Island vuole dire, ha da dire. Non vogliamo ascoltare.

I LOVE THE POWER GLOVE. IT’S SO BAD

Si potrebbero fare centinaia di esempi come questo. Parlare degli anni passati a giocare ogni metroidvania il mercato proponesse pur di tener vivo il genere, salvo poi non riuscire a concepire l’idea di un nuovo Metroid (Metroid, la serie che ha dato metà del nome al genere) venduto a prezzo pieno. Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito dalle prime file allo spettacolo dove prima Demon’s e poi Dark Souls rimettevano al centro del loro design il flavor dei primi Zelda e l’attitudine hardcore dei videogiochi che ci hanno cresciuto, ma non appena abbiamo realizzato i passi in avanti fatti da Elden Ring per arrivare alle masse abbiamo reagito come se qualcuno fosse entrato in casa nostra evocando la legittima difesa davanti ai changelog delle patch.

Ci siamo indignati ogni qualvolta un videogioco provava a essere più “video” che “gioco”, cercando di affrontare tematiche cui non siamo stati abituati ai nostri albori, almeno, qua in occidente

Ci siamo indignati ogni qualvolta un videogioco provava a essere più “video” che “gioco”, cercando di affrontare tematiche cui non siamo stati abituati ai nostri albori (almeno, qua in occidente, in Giappone è un’altra storia), nonostante questa non rappresenti certo la maggior parte dell’offerta su PlayStation Store e eShop. Il problema è proprio questo, forse: non ci interessa nemmeno “giocare e basta”, vogliamo che tutto quello che il mercato offre si rivolga espressamente a noi e rispetti i canoni del videogioco con cui siamo cresciuti, siano passati 10, 20 o anche più anni. Non riusciamo ad essere semplicemente contenti del fatto che nel 2023 esista ancora una scena di game-dev su Commodore 64 (su cui, ricordo, è costruita una parte importante di RetroTGM dell’attuale The Games Machine cartacea, ndMario), ma pretendiamo che tutta la produzione di oggi si rifaccia a quegli approcci perché altrimenti è troppo facile/poco divertente/non è davvero videogioco.

Perché non piacciono più i videogiochi?

Sembra che i videogiochi non ci piacciano più. Non ci interessa che quelle che riteniamo essere le nostre necessità vengano esaudite dal mercato in tempi sempre più celeri e a costi spesso e volentieri sempre più bassi, visto la frequenza con cui Steam e gli altri platform holder organizzano sconti e offerte. L’idea che esista qualcosa – qualunque cosa – che abbia l’ardire di non essere fatta a immagine somiglianza dei nostri gusti sembra aver rovinato per sempre qualunque velleità di intrattenimento del medium, figurarsi le pretese di essere arte, cultura o politica. Guardando il dibattito attorno al videogioco a volte ho la sensazione che Dante avesse torto, e che alla fine forse siamo davvero fatti a viver come Bruti. Dopotutto, preferiamo rimpiangere il commercio sulla Via della Seta, piuttosto che varcare le nostre personali Colonne d’Ercole e correre il rischio di affondare in mezzo all’oceano pur continuare a commerciare con i popoli dall’altra parte del mare.

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Gli eroi degli action non mi rappresentano... e meno male! – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/264496/eroi-action-non-mi-rappresentano-lopinione-tgm/ Sat, 07 Oct 2023 10:05:05 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=264496

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

ATTENZIONE: Questo articolo nuoce gravemente all’autostima.

Devo ricordarmi di non mangiare mai più la pizza con prosciutto e funghi, o perlomeno di assicurarmi della provenienza di questi ultimi. Durante una delle mie ultime abbuffate devo aver esagerato un pochino, pagandone le conseguenze con una notte tormentata da incubi. Ero finito in un mondo in cui il protagonista di tutti i videogame ero io. Meraviglioso? No davvero, anzi, terribile. Avreste dovuto vedere in che modo mi stroncavano nelle recensioni, finanche sulle pagine di TGM, serpi in seno. Un quote di Feronato’s Creed recitava “Tra tutti i protagonisti della saga, Feronato è il peggiore. Sono balzato giù da un palazzo per effettuare una stealth kill, ma all’impatto col suolo si è rotto un femore, ha mancato il bersaglio ed è stato finito a calci da un semplice mercante”. Mentre Feronato Souls veniva fatto a pezzi con “Ho provato la nuova classe Feronato, ma non appena ho bevuto una pozione per ripristinare dei punti vita persi durante un combattimento contro un semplice ragnetto, il PG ha iniziato a vomitare, per poi avere crisi di dissenteria, lordare tutto il dungeon e morire disidratato”.

eroi action

Per forza mi sono rotto un femore, mi han fatto saltare da un edificio di due piani! È già tanto, alla mia età, che non mi sia rotto l’osso del collo. Riguardo l’episodio di diarrea dell’avventuriero, volete provare voi a bere un liquame rossastro abbandonato in un luogo umido da chissà quanti anni, oggetto di attenzioni urinarie da parte di ratti? Fortunatamente, mi sono svegliato proprio un momento prima di conoscere le reazioni al mio ancheggiare inguainato nella tutina di Bayonetta. Semmai mi fosse mai passata per la mente la malsana idea di pretendere che i protagonisti dei videogame mi rappresentino in qualche modo, ora so che va decisamente accantonata.

GLI EROI SONO GLI EROI, E NOI SIAMO NOI

Vi è però una corrente di pensiero che vorrebbe avvicinare gli eroi degli action game, ma anche di molti lavori cinematografici, a noi comuni mortali, per farci sentire in qualche modo rappresentati da loro e inclusi in quei mondi fantastici. Purtroppo non è così semplice. Puoi reimmaginare la Sirenetta come una ragazza afroamericana, ma l’etnia è un particolare ininfluente in una creatura mezzo uomo e mezzo pesce in grado di respirare sott’acqua. Nel mondo dei videogiochi c’è anche un termine per questa operazione ritenuta da taluni un mezzo di inclusione: reskin. E come critico, ma anche come semplice gamer, sono più che abituato a guardare con sufficienza quando non mi pare di scorgere altro che un paio di texture aggiunte qua e là. Dunque, come i boomer che non autorizzano Meta a utilizzare le proprie foto, anche io nego il consenso di inserire i Feronato tra i personaggi degli action game.

eroi action

A che serve donar loro il mio aspetto, quando è in deficit tutto il resto? O pensate che Sam Lake, che davvero donò il volto a Max Payne, sia in grado di attivare il bullet time? No, la tanto ambita rappresentazione si limita alla foto della sua patente appiccicata a un modello 3D. Sam Lake è Sam Lake, e Max Payne è Max Payne, e tra i due vi è un abisso, come è giusto che sia. Perché mai dovrei poter trovare qualcuno con le mie caratteristiche all’interno di un gioco? Non avrebbe senso. Sono già me stesso, tutto il giorno, tutti i giorni. Quando mi diverto, voglio provare altro. Come tutti. Da sempre. Anche prima dei videogame. Da piccolo sono stato alieno, astronauta, cowboy, indiano, cavaliere crociato con una scintillante spada di legno, sono stato Zoff e sono stato Zico. Senza essere realmente nessuno di loro. Se avessi detto “no, non possiamo giocare a guardie e ladri, non ci rappresenta. Siamo guardie? Siamo ladri? No, giochiamo piuttosto a bambini qualsiasi”, mi avrebbero picchiato. A ragione.

Se voglio vedere la normalità, la trovo da questa parte del monitor

A un certo punto della storia, i videogame hanno smesso di essere diavolerie pixellose partorite in garage da gente stramba, assurgendo allo status di opere d’arte in alta risoluzione. E a una parte rilevante dell’espressione artistica non importa rappresentare la realtà. È nata per mutarla, stravolgerla, e in alcuni casi avvicinarla alla perfezione. Lasciamo allora che gli one-man army possano pure essere alti, snelli, attraenti, atletici, indomiti, e dotati di tutte le virtù che in noi latitano. Anche se non ci rappresentano. Anzi, proprio perché non ci rappresentano. Se voglio vedere la normalità, almeno per quel che mi riguarda, la trovo da questa parte del monitor.

RAPPRESENTARE LA REALTÀ DEGLI EROI? QUANDO MAI?

La storia insegna: tutt’oggi molti atleti e modelli, nonostante i progressi di qualità di vita, scienza e alimentazione, sfigurano dinanzi al Discobolo di Mirone, realizzato anche grazie al Canone di Policleto, una specie di cheatsheet che spiega come dovrebbe essere l’uomo perfetto, sfociando poi nel celebre Doriforo. Tutto questo nel 450 a.C. Quanti abitanti della Terra di 2500 anni fa, con l’aspettativa di vita minata da tetano, morbillo, carestie e guerre, si sarebbero davvero potuti riconoscere nei modelli raffigurati dalla scultura greca? Due?

Esageriamo, cinque, di cui tre dotati di smisurata autostima? O davvero pensiamo che i 300 Spartani di Zack Snyder avessero tutti 300 il six pack? Ma l’elogio alla bellezza non è solo retaggio di un passato barbaro, posto che si possa definire “barbara” la cultura greca, dato che proprio oggi tocca livelli altissimi con i bishōnen, giovanissimi ragazzi dall’aspetto androgino, ed è uno spettacolo vedere Sephiroth e Cloud Strife in Final Fantasy finalmente in 4K, nonostante non rappresentino probabilmente alcun autoctono delle lande del Sol Levante, luogo in cui è nato questo canone estetico. E che dire della Barbie, icona di una bellezza femminile irraggiungibile? Da un punto di vista anatomico, le misure della gallina dalle uova d’oro di Mattel sono impossibili, ma lei non lo sa e vende a tonnellate, proprio come il calabrone che non è fatto per volare ma se ne infischia e si libra nel cielo ugualmente.

Da un punto di vista anatomico, le misure della gallina dalle uova d’oro di Mattel sono impossibili

È un problema per milioni di ragazzine giocare con una bambola che non le rappresenta? Anche rendendo la sua fisicità più realistica, parliamo sempre di una persona che vive in una casa di quattro o cinque piani, con camper, macchina, yacht, piscina, e tutto il tempo libero necessario a godersi il suo status. Direi che a questo punto le sue gambe chilometriche siano il problema minore. Lasciamogliele dunque, che male fanno? E se doveste rabbuiarvi pensando a un modello fisico a voi irraggiungibile, pensate che in fondo nessuno vi obbliga ad assomigliare a nessuno. Non come Schwarzenegger e Momoa che han dovuto sputar sangue per avvicinarsi a Conan il Barbaro. Fallendo, se li paragoniamo al fumetto. Che dovrebbero dire loro?

eroi

No, senti, cambia i bicipiti di Conan perché così proprio non ci siamo, non è rappresentabile. Ma Conan è Conan, e noi, come direbbe il marchese del Grillo, siamo altro. Dunque, ben vengano i personaggi esageratamente belli, forti, invincibili. Alla peggio, vi concedo un disclaimer simile a quanto si vede sui pacchetti di sigarette: questo prodotto nuoce gravemente all’autostima. Ricordo le risate in sala quando è uscito Thor in sovrappeso in Avengers: Endgame. E non era né body shaming né grassofobia, ma solo ilare sorpresa, riassumibile con un “WTF Thor, tu dovresti essere strafigo”.

E SE VI DICESSI SEMPLICEMENTE “NICE TRY”?

Nonostante molte richieste di cambiare alcune caratteristiche degli eroi action paiano effettivamente partire da una parte del pubblico, nessuno riesce a togliermi dalla testa un pensiero un po’ più malizioso e machiavellico. Esiste veramente l’esigenza di un’inclusione a 360 gradi, o siamo di fronte a un calo di creatività che propone minimi aggiustamenti venduti come visionarie rivoluzioni? “Dovremmo inventare un nuovo personaggio, sentite che idea: un uomo venuto da un altro pianeta, invulnerabile, che può volare, fortissimo, con la vista a raggi X. Così però sarebbe troppo invincibile, allora facciamo che se viene in contatto con un frammento della sua terra natale, perde tutti i poteri. Ah, esiste già e si chiama Superman? Non è un problema, cambiamo il suo mestiere da giornalista a rider, modifichiamo qualche tratto somatico, e aggiungiamo un neo sulla spalla.

Sarà irriconoscibile, e il pubblico plaudirà il nostro coraggio di sfidare gli schemi. E daremo della vecchia cariatide a chiunque osi obiettare. Anche perché altrimenti qui ci tocca davvero inventare un supereroe nuovo e il concept più interessante che ci è pervenuto è quello dell’Uomo Preservativo”. No, cari miei, non funziona così. Non ve la caverete rifilandoci un Bruce Wayne col mutuo o un James Bond gay. Batman rimane ipermilionario, l’agente 007 continua la sua carriera di impunito donnaiolo e voi vi sparate un brainstorming di tre mesi a pane e acqua se necessario, ma uscite con qualcosa di nuovo e carismatico. E sapete cosa vi dico? Non ci credo che le cosiddette “minoranze” bramino di vedersi raffigurate in questo o quell’eroe, proprio come a me non importa nulla che Blade, uno dei miei Marvel preferiti, sia di un’etnia diversa dalla mia. Sinceramente, non ci avevo mai pensato prima che esplodesse questo ipotetico problema, e no, non mi interessa minimamente assistere a un reboot del Diurno in versione caucasica.

GUARDA, FINGO CHE SIA COME TE

Ci sono però dei giochi in cui gli eroi sono proprio persone comuni come noi, che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato e già che erano in ballo, hanno ballato. Gordon Freeman, per esempio. Uno di noi. Perchè qui dentro tutti quanti abbiamo un dottorato di ricerca al MIT, io tra poco prendo il quinto, anche se poi fatico a seguire un tutorial su YouTube. Anche Ellie è una di noi. Una quattordicenne qualsiasi, che uccide infetti senza problemi quando mia figlia, sua coetanea, urla quando vede una cimice. La verità è che nulla ci rappresenta, nemmeno le foto che noi stessi postiamo sui social ci rappresentano, dato che sono frutto di infiniti scatti, decine di filtri e improbabili prompt ai software di intelligenza artificiale. Qualcuno ha mai uppato una foto profilo in cui è venuto male? La corsa verso la bellezza, o quella che viene ritenuta tale, conta un numero spropositato di persone, ne sono testimoni creme rassodanti, antiage, antiacne, anticellulite, antitutto. Lasciamo che lo facciano anche i creativi, quando lo ritengono necessario.

Non sarà la peluria sul viso di Aloy a renderla simile a noi, dato che non maneggiamo armi con quella destrezza. E nemmeno allontanare la protagonista di Fable dai comuni canoni di bellezza renderà il gioco più inclusivo. Servirà solo, come sta accadendo, ad accendere inutili polemiche, con persone che invece di contare i giorni che mancano al day one si stanno scervellando per capire se sia biologicamente uomo o donna. Avete mai letto polemiche di questo tenore su Lara Croft? No. Ma vedo che fingendo di voler rappresentare tutti, si riesce a creare un bel buzz, magari facendo arrivare il nome Fable anche all’orecchio di chi non ha mai sentito parlare della saga iniziata da Big Blue Box. Acclamare scelte stilistiche di questo tipo potrebbe trasformare gli appassionati in pedine, scopo non certo nobile da parte di una software house.

ACCETTARE E PRETENDERE

Ci troviamo così di fronte a una apparentemente dicotomia: accettare e pretendere. Accettare che il lato B di Lara Croft, spesso generosamente in favor di camera, sia nella maggior parte dei casi inarrivabile. Accettare i centimetri di meno di altezza, o i centimetri in più nella circonferenza di zone che si preferirebbero più snelle. Del resto, sentirsi insoddisfatti perché non assomigliamo abbastanza a un personaggio di fantasia, forse è sintomo di un disagio più profondo che non dovrebbe esistere in quest’epoca di body positivity, che dovrebbe promulgare l’accettazione di sé stessi piuttosto che la modifica degli altri. Che siano le gambe della Barbie, il sorriso di Brad Pitt, o la chioma di Pino Scotto, nessuno dovrebbe sentirsi sminuito di fronte a nessuno.

Allo stesso tempo, a mio modesto e personale parere, è lecito pretendere che l’industria abbandoni l’idea di vincere facile giocando su trucchetti inclusivi e ricominci a lavorare sugli eroi. Perché se nessuno di noi ha scelto il proprio aspetto, ciascuno dei designer ha scelto il proprio mestiere. Pretendo quindi che si sforzino come fece Policleto per partorire qualcosa che mi faccia dire “uao”, non per reskinnare personaggi.

Chiedendo una semplice rappresentazione dell’uomo comune, si finirà per condannare la creatività

Chiedendo una semplice rappresentazione dell’uomo comune, si finirà per condannare la creatività, e la capacità di giocare di ruolo, a morte. Morte che, non c’è bisogno di dirlo, può anche far battere qualche cuoricino, ma solo se si presenta come Joe Black. Gli eroi noi sono e non devono essere come noi. Mai. 

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Se Volition ha chiuso la colpa non è di Saints Row – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/263821/se-volition-ha-chiuso-la-colpa-non-e-di-saints-row-lopinione/ Sat, 30 Sep 2023 11:09:01 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=263821 È notizia recente che lo studio americano Volition, venti anni di onorato servizio, ha chiuso i battenti. La mente è andata subito al recente reboot di Saints Row, non esattamente un gioco incensato dal pubblico, e all’un po’ meno recente Agents of Mayhem, anch’esso accolto tiepidamente. Ma il discorso è più complesso di “se fai un gioco brutto, allora ti tocca chiudere”.

Volition Saints Row

Qualche settimana fa, mi sono trovato davanti un articolo di The Gamer dal titolo che a prima vista potrebbe lasciare perplessi: “2023 has been a horrible year for gaming”. Perplessi perché, insomma, chiunque segua il mondo dei videogiochi almeno da qualche tempo sa che quest’anno in realtà è stato fuori dal comune per quello che riguarda i titoli arrivati sul mercato. Tears of the Kingdom, Armored Core 6, Baldur’s Gate 3, Starfield, Cyberpunk 2077 Phantom Liberty sono solo alcuni fra la caterva di giochi di alto livello a cui abbiamo potuto mettere mano quest’anno, ma – come si affretta a spiegare l’autrice – non è di questo che parla l’articolo, che invece si sofferma su ciò che è successo dietro le quinte, lato industria. Ed è una tesi con cui mi sento di essere completamente d’accordo: quest’anno è stato terribile per l’industria dei videogiochi. Soprattutto in queste ultime settimane, le notizie di licenziamenti di qua e di là si sono susseguite una dietro l’altra, ma ricordiamo che quest’anno si è aperto con la notizia che Microsoft avrebbe licenziato 10.000 dipendenti, incluso personale di 343 Industries e di Bethesda. L’ironia di una corporazione che da più di un anno sta combattendo una battaglia legale per portare a termine un’acquisizione da sessantanove miliardi di dollari e che allo stesso tempo si mette a licenziare una quantità a quattro zeri di persone non dovrebbe sfuggire a nessuno, ma andiamo oltre.

L’IRONIA DI UNA CORPORAZIONE CHE LOTTA NEI TRIBUNALI PER PORTARE A TERMINE UN’ACQUISIZIONE DA SESSANTANOVE MILIARDI DI DOLLARI E ALLO STESSO TEMPO LICENZIA DIECIMILA PERSONE NON DOVREBBE SFUGGIRE A NESSUNO

Torniamo un attimo a Volition, facendo una doverosa premessa: realisticamente, cos’è successo dentro lo studio durante la fase di produzione di Saints Row, e nei mesi che possiamo immaginare piuttosto tormentati dal lancio fino alla sua chiusura, lo sa solo chi c’era lì dentro (e comunque è impossibile non immaginare un parallelo fra queste giornate e quelle che portarono alla bancarotta di THQ nel 2012, casa madre di Volition fino al suo passaggio sotto Deep Silver). Detto questo, qualche ragionamento si può fare. Uno dei motivi per cui il reboot di Saints Row ha fatto alzare qualche sopracciglio fin da subito è stata la decisione di partire con un cast di personaggi completamente diversi da quelli che gli aficionados della serie avevano imparato ad apprezzare fin dal 2006. Questa scelta era stata giustificata con il fatto che ormai, dopo gli eventi degli ultimi capitoli, fosse davvero difficile trovare una dimensione in cui incastrare i Santi. Affermazioni che anche qui in redazione non avevano mancato di far nascere qualche perplessità, figurarsi al di fuori: la fanbase non aveva mancato, spesso anche esagerando i toni, di sottolineare la sua avversione al nuovo quartetto di protagonisti, trovandosi di fronte però a un muro, con Volition che insisteva per continuare per la sua strada. Cosa, per la verità, più che comprensibile: arrivati a quel punto, tornare sui propri passi avrebbe davvero significato una quantità irragionevole di lavoro, fra nuovi modelli, riscrittura della storia, ridoppiaggio del dialoghi, eccetera. Al di là delle decisioni interne di Volition, risulta difficile credere che Deep Silver avrebbe approvato una modifica così radicale, e quindi uno slittamento tutt’altro che indifferente dei tempi di pubblicazione.

CHI NON RISICA… FA FIOR DI QUATTRINI

Ma, giunge spontanea la domanda, se proprio non sapevano più dove andare con i Santi e volevano scrivere una storia nuova, perché non creare un’altra IP? Qui bisogna allargare di nuovo la visuale: per gli studi medio-grandi, le nuove IP sono un rischio. Significa rinunciare alla brand recognition, e in tempi in cui i cicli di sviluppo di un videogioco vanno dai tre anni in su, è difficile scegliere di rinunciare a qualcosa di così potente come la forza di un nome, e soprattutto alla fanbase che è riuscito a conquistarsi. Questa non è certo qualcosa che svelo io: fra i tanti esempi, basta pensare a Capcom e alla sua (ottima) operazione di rinnovamento della serie Resident Evil per avere una testimonianza concreta del perché restare su terreni già conosciuti non è solo più facile, ma in linea di massima conviene anche. Casomai aveste bisogno di una conferma che il ragionamento è presente anche all’interno degli ambienti corporativi e che non si tratta solo di una innocua teoria del complotto, basta leggere cosa ne dice Phil Spencer di Xbox in una sua interessante email recentemente leakata, e messa in evidenza da Ethan Gach di Kotaku:

“Poche compagnie possono permettersi di spendere i 200 milioni di dollari che Activision o Take 2 spendono per portare sugli scaffali titoli come Call of Duty o Red Dead Redemption. Questi publisher AAA hanno, in larga parte, utilizzato la scala [inteso come dimensione] delle loro produzioni per mantenere i loro franchise di punta fra i giochi più venduti dell’anno. Il problema a cui questi publisher sono andati incontro è che proprio questo approccio che punta alla scala della produzione danneggia la loro abilità di creare nuove IP. Il tasso di rendimento di nuove IP a questi elevati valori di produzione ha portato a un’avversione al rischio connesso alla creazione di nuove IP da parte dei grandi publisher. Abbiamo visto un aumento nella quantità di publisher AAA che usano IP su licenza per cercare di diminuire il rischio (EA con Star Wars, Sony con Spider-Man, Ubisoft con Avatar ecc).”

Questo estratto va a inserirsi in un discorso più ampio sull’importanza, secondo Phil Spencer, di mantenere un controllo delle piattaforme di distribuzione, ma oltre a fornire una autorevole conferma a quanto dicevo poco sopra ci permette di agganciarci a quello che è un altro problema dell’industria odierna, e di cui il capo di Xbox parla nella sua email: e cioè le dimensioni che hanno raggiunto i videogiochi. Non mi riferisco ovviamente alla fissazione per l’open world del game design tripla A odierno, ma ai tempi (e con essi i costi) associati alla creazione di un videogioco ad alto budget. Per Red Dead Redemption 2 ci sono voluti 7 anni. Baldur’s Gate 3 ha richiesto tre anni di sviluppo, più i tre trascorsi in Accesso Anticipato. I lavori su Starfield sono iniziati dopo la pubblicazione di Fallout 4, nel 2015. Anche esperienze più contenute, come per esempio Ratchet & Clank: Rift Apart o The Last of Us Parte II, hanno richiesto rispettivamente cinque e sei anni di lavoro.

LO SVILUPPO DI UN GIOCO TRIPLA A COPRE QUASI L’INTERO ARCO DI UNA GENERAZIONE DI CONSOLE

La lunghezza di questi cicli di sviluppo significa anche rischi e incertezze. Un tripla A che iniziasse i lavori oggi uscirebbe alla fine di questa generazione di console o all’inizio della prossima, con tutto ciò che ne consegue (ricordate le voci di corridoio secondo cui Resident Evil Village stava incontrando problemi su PS5?). E c’è naturalmente anche da considerare il fatto che quando spendi cinque, sei, sette anni su un progetto, non puoi permetterti che vada male. Di questo si è resa conto anche CD Projekt RED, che dopo il disastroso lancio di Cyberpunk 2077 (sette anni in cantiere, più o meno; o dieci, se vogliamo contare la patch 2.0 come il vero lancio…) si è affrettata a chiarire agli azionisti che in futuro avrebbe diversificato il suo portafoglio di giochi, non affidando più tutte le speranze per il futuro a un unico megaprogetto. Non che questa strategia stia andando alla grandissima per i partner coinvolti.

Lungi dal limitarsi ai soli giochi tripla A, dove comunque il discorso è più prevalente, questo ragionamento si diffonde a pioggia anche su produzioni di scala inferiore. Non è un caso che molti studi medio-piccoli, nel seguire le loro ambizioni di crescita, finiscano per associarsi più o meno strettamente a qualche publisher, spesso anche venendone direttamente acquisiti: troppo rischioso non avere qualcuno alle spalle che copre il finanziamento del gioco, e che assicura che possa avere una copertura pubblicitaria adeguata. Casi come Larian, di uno studio indipendente che partendo da una situazione di quasi bancarotta arriva a creare tripla A per conto suo, sono rari.

ASSOCIARSI A UN PUBLISHER È UNA SCELTA QUASI OBBLIGATA PER CHI VUOLE CRESCERE, MA HA ANCHE RISVOLTI NEGATIVI

La scelta di associarsi a un publisher ovviamente non ha solo benefici per gli sviluppatori: al di là di possibili ragionamenti sull’indipendenza creativa, significa anche trovarsi almeno in parte economicamente dipendenti dalle decisioni dei piani alti, e legati al suo destino. Torniamo quindi a Volition e al suo rapporto con Deep Silver, o meglio con Embracer Group. Qualche settimana fa, un finanziamento da due miliardi di dollari che il gruppo svedese si aspettava da parte dei sauditi è andato in fumo. Il risultato della mancata iniezione di capitali è stata quella che in gergo corporativo si chiama “ristrutturazione”, cioè licenziamenti e chiusure a catena, e non è escluso che prossimamente Embracer decida anche di svendere alcune delle realtà acquisite nel corso degli ultimi due anni (Gearbox è uno dei nomi circolati). Ed è proprio in questo contesto che rientra la chiusura di Volition: in quella di un fondo d’investimento che ha detto gatto prima di averlo nel sacco e ora si trova a dover tirare i remi in barca.

GIOCHI BELLI, GIOCHI BRUTTI

Il discorso non è finito qua. “Ma Marco,” immagino qualcuno si stia chiedendo, “Saints Row è uscito un gioco brutto. Se non avessero fatto un gioco brutto, forse Volition sarebbe ancora in piedi”. Vero; mettere sul mercato un cattivo prodotto non è in linea di massima la strategia migliore per sopravvivere, qui come altrove. Ma nell’industria videoludica del giorno d’oggi, neanche fare giochi belli a quanto pare è garanzia di buona fortuna. Fra gli studi comprati da Embracer nel corso del 2022 c’era anche Eidos Montreal, svenduta assieme a Crystal Dynamics da Square Enix. L’ultimo gioco pubblicato da Eidos Montreal è stato Marvel’s Guardians of the Galaxy, gioco che al netto di qualche problema minore di pulizia è davvero un’eccellente trasposizione dei Guardiani nel mondo dei videogiochi, e accolto positivamente sia dalla critica che dal pubblico (Metacritic vale quel che vale, ma lì i voti delle avventure di Star-Lord e compagni sono 8.0 lato stampa, e 8.6 lato utenti). Eppure non è bastato per far sì che a Shinjuku non decidessero di disfarsene, assieme ai creatori di Tomb Raider, a un prezzo oltretutto relativamente misero, cioè 300 milioni di dollari; per fare un paragone, per l’acquisizione della sola Insomniac Games, Sony ha speso 229 milioni di dollari.

Ma forse più emblematico è il caso di Mimimi Games. Dal 2016 in poi, il piccolo studio tedesco è stato responsabile per la rivitalizzazione del genere dei tattici in tempo reale, con tre giochi uno migliore dell’altro (Shadow Tactics, Desperados III e il recente Shadow Gambit). E poi lo studio ha chiuso. E fra i motivi citati, c’è proprio la difficoltà di trovare finanziamenti:

“Creare questi giochi è stato meraviglioso e allo stesso tempo estremamente estenuante. Raggiungere il livello di qualità a cui puntiamo noi di Mimimi è difficile e richiede concentrazione e dedizione. Dobbiamo anche riconoscere che i costi delle nostre prossime produzioni stanno crescendo più dei potenziali incassi per i giochi di questo genere. L’aumento della pressione finanziaria e il livello di rischio sono diventati insostenibili. In aggiunta, quando i nostri giochi si avvicinavano al lancio ed erano finalmente divertenti da giocare, aveva immediatamente inizio la lotta per trovare finanziamenti per i progetti successivi, rendendo il tutto un circolo vizioso. Fin dal 2011, quando abbiamo presentato [a Daedalic Entertainment] The Last Tinker, non abbiamo mai avuto un attimo di riposo”.

La morale della favola non c’è, perché ciascuno da questa serie di episodi che ho raccontato potrà trarci l’insegnamento che vuole. Sono sicuro che qualcuno penserà che insomma, se Mimimi ha chiuso è anche perché potevano vendersi meglio, seguire un po’ di più il mercato. Che così va il mondo. Che fare giochi è un business e come tale va affrontato. Io penso che, nonostante riesca a creare gemme splendenti – e quest’anno ne abbiamo avute tante testimonianze – l’industria dei videogiochi soffra di numerose malattie. E anche di questo, purtroppo, ne abbiamo testimonianza quasi settimanale.


Originariamente, questo articolo si chiudeva qui. Ma dopo che, nel giro di 24 ore, siamo venuti a sapere che in seguito alla cancellazione dello sparatutto multiplayer HYENAS Creative Assembly ha annunciato che dovrà licenziare gente, che Blizzard ha ridimensionato il team di sviluppo di Hearthstone, e che Epic ha licenziato 830 persone, ho pensato che sarebbe stato assurdo non parlarne. Quest’ultimo caso è particolarmente rilevante rispetto all’argomento di questo editoriale perché fra gli studi coinvolti c’è anche Mediatonic, che è stata colpita duramente dai licenziamenti, pur se non “completamente smantellata” come si legge su qualche sito più interessato a fare scalpore che a fornire informazioni precise. I più attenti ricorderanno come, in seguito al fulminante successo di Fall Guys, lo studio britannico era stato acquisito da Epic Games a marzo 2021. E in questo contesto non possono che far venire i brividi le parole di Tim Sweeney, che in un comunicato ufficiale ammette candidamente che “per qualche tempo, abbiamo speso parecchi più soldi di quelli che incassavamo” nel tentativo di rendere Fortnite un metaverso (buzzword che, per qualche mese, tanti giganti del tech si sono messi a inseguire. Zuckerberg continua a crederci, ma in formato ridimensionato e più con i piedi per terra. Relativamente). Non preoccupatevi, però: Epic continuerà a spendere milioni nella sua lotta legale contro Apple e Google, a inseguire i suoi sogni di metaverso, e ad assumere personale, chiariscono le FAQ in chiusura. E intanto chi ha sbagliato a fare i conti, chi ha deciso di spendere più di quello che guadagnava, è ancora lì al suo posto in vetta alla compagnia.

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Videogiochi e italiano: una ferita aperta – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/263551/videogiochi-e-italiano-una-ferita-aperta-opinione/ Sat, 23 Sep 2023 09:06:20 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=263551 La localizzazione in italiano dei videogiochi è un tema che tiene spesso banco tra gli appassionati, compresi i nostri lettori.videogiochi italiano editorialeSempre più spesso, scorrendo tra i commenti ai nostri articoli, è facile imbattersi in persone che si lamentano per la mancata traduzione in italiano di questo o quel videogioco. Il copione è sempre lo stesso: qualcuno espone una critica, arriva un’altra persona a invitare il primo a imparare l’inglese, e poi segue una discussione in cui a volte si alzano i toni. Da una parte c’è chi legittimamente vorrebbe fruire di opere completamente localizzate nella nostra lingua (o perlomeno dotate di sottotitoli in italiano), dall’altra chi riesce a godere dei videogiochi in lingua inglese e crede che il resto della popolazione mondiale debba essere come loro.

ho sempre fruito dei videogiochi in lingua inglese

Nel corso degli anni la mia opinione sull’argomento è cambiata. All’inizio ero anch’io come i secondi: ho sempre fruito dei videogiochi in lingua inglese, non mi è mai pesato e anzi ancora oggi li preferisco così. A chi chiedeva più titoli localizzati rispondevo di imparare l’inglese, ché nel 20XX è gravissimo non conoscere la principale lingua franca mondiale. Poi nel tempo mi sono ammorbidito e ho iniziato a comprendere le ragioni dell’altra parte della barricata.

VIDEOGIOCHI E ITALIANO: UNA FACCENDA COMPLESSA

Quando chiediamo agli altri di imparare l’inglese dovremmo tenere bene a mente diversi elementi: primo fra tutti il livello medio dell’istruzione pubblica italiana. Non so voi, ma se mi fossi affidato soltanto a ciò che mi ha insegnato il mio professore di inglese non sarei mai andato oltre il livello “the cat is on the table”. Persona squisita, il mio prof delle superiori, ma il massimo che ho appreso da lui è la differenza tra “your” e “you’re” (che ok, forse è più di quanto sappiano gli anglofoni). Sono stati proprio i videogiochi ad aiutarmi a imparare l’inglese, assieme ai film e alle serie TV in lingua originale, di certo non la scuola pubblica.

Da ragazzino ho giocato a molti RPG con un dizionario sulla scrivania.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è quello delle capacità di ognuno di noi. C’è chi è più portato per le lingue e non ha problemi a impararne di nuove, mentre altri semplicemente non ce la fanno. Non credo sia una questione di intelligenza, ma di attitudine. Un mio amico è un genio, davvero: ha una laurea in matematica e una in fisica, entrambe prese con 110 e lode, ma le uniche parole inglesi che conosce sono “hello” e “how are you?”, oltre chiaramente alle parolacce.

imparare una lingua straniera richiede tempo e denaro

Inoltre, imparare una lingua straniera richiede tempo e denaro, entrambe risorse che di questi tempi scarseggiano sempre di più. Provate a chiedere a un cinquantenne con famiglia e figli di seguire un corso privato solamente per riuscire a giocare a un videogioco. Sarebbe disposto a sborsare centinaia di euro, se va bene, e a investire qualche mese della sua vita per provare a godersi alcuni titoli? Già, alcuni perché mica tutti richiedono la medesima conoscenza dell’inglese. Se per Sea of Stars – giusto per citare un titolo recentissimo – è sufficiente una conoscenza basilare, lo stesso non si può dire di opere ben più complesse, come per esempio un Disco Elysium a caso.

Sono sicuro che persino alcuni madrelingua avrebbero difficoltà a comprendere Disco Elysium.

C’è poi un ultimo elemento da considerare. L’ho tenuto alla fine perché secondo me è quello più importante. Siete appena tornati a casa da una giornata di lavoro lunga e faticosa. Accendete il PC o la console e volete solo rilassarvi per un’oretta o due. Anche se avete una buona conoscenza dell’inglese, avete le energie necessarie per giocare a un gioco in inglese? Ce la fate a tradurre simultaneamente dall’inglese all’italiano nella vostra testa? Riuscite a godere di un’opera di intrattenimento senza perlomeno i sottotitoli nella nostra lingua? Se la risposta a tutte queste domante è affermativa, buon per voi. Non tutti, però, ne sono capaci (o ne hanno voglia). Anzi, azzarderei a dire che siete una minoranza.

Pensateci bene la prossima volta che vi verrà in mente di invitare uno sconosciuto a imparare l’inglese per fruire di un prodotto di intrattenimento. Non tutti sono come voi: abbiate rispetto del prossimo.

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Un mare di stelle in pixel – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/263188/un-mare-di-stelle-in-pixel-l-opinione/ Sat, 16 Sep 2023 08:00:18 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=263188 È un lunedì sera di settembre un po’ sonnacchioso, anzi, ormai martedì, che ho passato a giocare a Sea of Stars. Avanzando con l’avventura, dopo aver sconfitto un millenario demone pirata e aver aiutato la povera gente di un villaggio portuale – le solite robe che si trovano in giochi del genere – sono finito in una cripta abitata da una strana entità per metà fiammella e per metà pokémon leggendario. Questo “coso” mi spiega di essere entrato in una sorta di necropoli commemorativa di migliaia di anime, mentre mi accoglie in questo stanzone con tante piccole pedane per terra. Ogni pedana sembra teletrasportarmi verso un’area diversa, dei veri e propri cimiteri interconnessi con lapidi di svariate dimensioni, alcune molto grandi con statue particolarmente dettagliate, raffiguranti persone e cose in certi casi decisamente fuori contesto in un gioco fantasy: astronauti, cani e gatti di ogni tipo e persone comuni.

UN CIMITERO ASTRALE IN UN MARE DI PIXEL

Inizialmente ho pensato fosse una trovata simpatica per inserire i crediti agli autori di Sabotage Studio, con delle dediche. Però leggendo così tanti nomi, intuendo l’enorme numero di “tombe” presenti in quel luogo, ho capito che doveva trattarsi dei backer, i finanziatori che hanno investito sulla campagna Kickstarter del gioco. Comunque una trovata simpatica. Ognuna di queste lapidi è posta a memoria di un utente che ha creduto nel progetto, alcune – crollate o illeggibili – sono di sostenitori anonimi, altre hanno il nickname, altre ancora hanno nome e cognome. Le più grandi, dedicate a chi ha investito di più, mostrano una statua in pixel art dedicata –  immagino realizzata su misura in base a foto o descrizioni inviate dai singoli utenti – e una frase personalizzata.

un mare di stelle in pixel

Parliamo di veramente tante dediche: nello stanzone iniziale dove si trova la strana entità ci saranno una cinquantina di pedane, ognuna connessa con un altro stanzone contenente un centinaio di incisioni, tra quelle piccole con il solo nome e quelle più grandi con la dedica. Sono talmente tanti che a ognuno è stato affidato anche un codice numerico per potersi ritrovare, comunicato agli stessi backer via mail. Basta parlare con l’essere nella stanza principale e inserire i numeri per venire trasportati davanti a una dedica, magari alla propria o a quella di un amico. È uno spazio totalmente riservato a ospitare dei ricordi, in cui non c’è un “game” e il gioco costantemente ci ricorda essere opzionale. Però c’è un “play”, c’è la possibilità di interagire, esplorare, perdersi a leggere questi nomi e queste parole che alcuni utenti hanno deciso di imbottigliare e lanciare in questo mare di stelle.

un mare di stelle in pixel

Senza che neanche me ne accorgessi mi sono ritrovato a girare tra questi messaggi per più di un’ora. Sembra di trovarsi in uno di quei luoghi che si trovano spesso nei musei o in posti turistici, dove si può lasciare un biglietto appeso al muro con scritto quello che si vuole. Solo che a questo giro appendere un post-it (virtuale) costava. Non mi riferisco tanto a quelle poche decine di euro che servivano a inserire la propria dedica in questa cripta, ma all’investimento emotivo e la fiducia in un gruppo di persone che sviluppano un gioco.

Tra le dediche si trova di tutto. Ci sono un po’ di messaggi banali sul credere in sé stessi e nei propri sogni, o sulle montagne da scalare che se ci credi veramente non importa quanto siano alte. Ce ne sono molti di più molto meno banali. Tante sono le dediche di affetto a figl*, compagn*, mogli e mariti, legami di vario tipo, a volte sono in spagnolo, francese, italiano. In alcuni casi sono ricordi affettuosi di madri e padri che non ci sono più. Una marea di pensieri dedicati ad animali vivi o vissuti – cani, gatti, qualche coniglio – che i padroni hanno deciso di immortalare in una manciata di pixel digitali nascosti in un finto cimitero in mezzo a una miriade di altri nomi.

Un mare di stelle in pixel

TOMBE FINTE, DEDICHE VERE

Ma quanto è davvero finto questo cimitero? In effetti mentre giravo tra quei pixel mi sono fermato a leggere le frasi e guardare queste “immagini” poste a ricordo, proprio come in uno vero. Alcuni messaggi mi hanno commosso, altri mi hanno scaldato il cuore, altri ancora mi hanno annoiato. Tutti mi hanno fatto provare empatia, mi hanno fatto pensare a quanta umanità ci sia nelle cose, nelle opere. Quella degli sviluppatori che per anni lavorano a un gioco, ma anche quella di persone comuni che aspettano di poterlo giocare. Persone che investono su un’idea, e che quando gli viene lasciato lo spazio di incidere una frase scelgono di ricordare Marko, amico a quattro zampe scomparso il 28 maggio 2021, o Kristen, sorella di Sean venuta a mancare, o Janet, madre che il figlio spera di incontrare di nuovo prima o poi.

Proprio come davanti a una tomba vera, anche tra queste lapidi pixellate sembra mi risulti più facile empatizzare da osservatore passivo con le persone che hanno lasciato un ricordo. I cimiteri mi hanno sempre fatto questo strano effetto. Vai per ricordare i tuoi cari e ti ritrovi a guardare le facce e i nomi di persone sconosciute che un tempo hanno vissuto, ma che non conoscerai mai. E ti chiedi come saranno state da vive, quanti affetti avranno avuto, se avranno vissuto una bella vita o meno. E allo stesso modo io mi sono chiesto del cagnolino Marko, dell’umano a cui avrà fatto compagnia tra il 2008 e il 2021. Chissà cosa avranno fatto in quei 13 anni, chissà dove hanno vissuto, chissà come, chissà cosa sta facendo in questo momento quell’umano. E pensare che mezz’ora fa stavo combattendo un millenario demone pirata…

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La sfida dell’Indie-JRPG al Giappone – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/262850/la-sfida-dellindie-jrpg-al-giappone/ Sat, 09 Sep 2023 12:05:49 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=262850 Appassionati di JRPG e non, lo avrete sicuramente notato, probabilmente ben prima che uscisse qualche giorno fa l’ottimo Sea of Stars: i team indipendenti occidentali, negli ultimi anni, hanno lanciato una sorta di scalata al gioco di ruolo a turni, con l’obiettivo di abbattere quella J che da sempre li caratterizza e issare una W, come western, rivoluzionando (e rivitalizzando) un genere che, più di tutti, vive di dogmi e tradizioni tramandate di generazione (videoludica) in generazione. E così, contemporaneamente a una sorta di rinascita del genere nella sua patria natale, trainata dalle major giapponesi come la solita Square-Enix, Atlus e Monolith Soft (sotto Nintendo), con opere come Dragon Quest XI, Final Fantasy VII Remake, Persona 5, la serie Xenoblade ma anche da SEGA, col suo Yakuza: Like a Dragon, in Europa e America gli sviluppatori più underground, cresciuti nel mito di Final Fantasy, Chrono Trigger ed Earthbound decidono di smontare, cambiare dei pezzi e rimontare i loro videogiochi preferiti, incontrando la crescente curiosità del pubblico.




È uno sguardo interessante quello con cui i team occidentali osservano il genere, uno sguardo critico e insieme innamorato, capace di rinnegare le lungaggini tipiche del genere, il grinding, i tempi morti, citando però con grande delicatezza momenti, scorci, sonorità, meccaniche, senza mai limitarsi a copiare e, anzi, spesso ibridando quella struttura a generi teoricamente estranei. Prendiamo il clamoroso Everhood, psichedelico e acidissimo RPG esistenzialista alla Earthbound, con i combattimenti trasformati in vere e proprie sequenze rhythm, sulle note di una colonna sonora pazzesca. Oppure Haven, seconda opera di The Game Baker, già autori di Furi, capaci di unire visual novel romantica, sci-fi, esplorazione di mondi alieni e combattimenti a turni in una sola, bizzarra e adorabile avventura. Un’atmosfera totalmente opposta rispetto a Darkest Dungeon, dungeon crawler roguelite che si affida alla struttura a turni per affrontare le mostruosità lovecraftiane che si annidano e proliferano tra i suoi labirinti, portando alla follia personaggi e giocatore. Ma, anche restando nel solco di un approccio più “classico”, si trovano dei titoli distintivi e di grande pregio. Uno dei casi videoludici dell’anno scorso fu Chained Echoes, sviluppato in solitaria dal dev tedesco Matthias Linda, capace di riproporre un JRPG 16-bit “puro” con tutta la quality of life che richiede un gioco moderno, anteponendo il gameplay alle statistiche e dando un ritmo serrato all’appassionante racconto, tra guerra e intrighi politici, interpretato da personaggi memorabili.

Chained Echoes potrebbe tranquillamente essere un titolo SNES, eppure sotto la sua pixel art è un JRPG estremamente moderno.

Io personalmente ritengo che diventi eccessivamente artificioso e la componente puzzle, nelle fasi avanzate, copre un po’ quella strategica, ma non si può negare che il combat system dell’opera sia uno dei più intriganti visti negli ultimi anni, con la necessità di gestire una sorta di barra della fatica per massimizzare danni inflitti e minimizzare quelli subiti, alternando i personaggi del party in battaglia, a seconda della situazione. Il recentissimo Sea of Stars di Sabotage Studio (già autori di The Messenger, neoclassico pubblicato da Devolver) trovo sia addirittura un perfezionamento di quel modo di reinterpretare il JRPG 16-bit. Proponendo un’esplorazione e un dungeon design ispirato a classici Game Boy Advance dei primi anni 2000 come Golden Sun e la serie Mario & Luigi, il gioco riesce ad essere ancora più fluido, dinamico e divertente, oltre che straordinariamente affascinante a livello audiovisivo. Dai tempi del super-cult Undertale, l’Earthbound degli anni ‘10 nato dalla mente di Toby Fox, il sottobosco indie ha capito che anche questo genere si poteva ribaltare, attualizzare, farne una versione street food, un’esplosione di gusto diretta, senza filtri, senza mise en place da ristoranti stellati, proponendosi sia a chi di JRPG ne ha giocati mille e voleva qualcosa di fresco, sia a chi se ne è tenuto sempre ben alla larga, dandogli un sapore più familiare e per questo esotico (come quel locale dove sono stato qualche anno fa, che fa “sushi umbro” ad Assisi). Fino a 10 anni fa ben pochi ci provavano e ancora meno ci riuscivano, a confrontarsi con successo col genere, a queste latitudini; ora è cambiato tutto. Per come la vedo io il livello dei classici 16-bit è stato già raggiunto.

JRPG

Everhood è sicuramente uno dei miei giochi preferiti degli ultimi anni, ma è anche un esempio (estremo) di come il genere possa essere ibridato in modi imprevedibili.

Magari non abbiamo ancora un titolo rilevante a livello storico come un Final Fantasy VI o un Chrono Trigger ma, in cambio, abbiamo tante opere originali, uniche, che se fossero uscite all’epoca sarebbero state accolte tra squilli di trombe e recensioni entusiastiche. Perché le idee, e che idee, ci sono e sono già state capaci di far tornare il JRPG (e il WRPG) protagonista del mercato, su due livelli diversi (quello mainstream e quello della pur consistente nicchia indie) ma con risultati paragonabili (le 250.000 copie e rotte vendute di Sea of Stars in due settimane parlano chiaro). Un ritorno talmente improvviso da far dubitare che la strategia di Square-Enix per rivitalizzare Final Fantasy (oltre i remake del settimo capitolo) fosse realmente necessaria, con un XVI che abbandona quasi totalmente i tratti del JRPG (andando molto più in là del semplice svecchiare e ibridare) per abbracciare una svolta action controversa che, a livello finanziario, non ha (per lo meno ancora) raggiunto i risultati sperati dal colosso nipponico. Nessuno saprà mai se con un’altra struttura il titolo sarebbe stato un grandioso successo, ma viene certamente da porsi la domanda, visti i numeri altissimi che ha fatto, ad esempio, Persona 5 in occidente, opera teoricamente molto meno digeribile.

JRPG

Il fenomenale Sea of Stars di Sabotage Studio…

E allora godiamoci la rinascita dell’ennesimo genere che davamo per morto (come già successo coi punta-e-clicca qualche anno fa), con i nuovi talenti del videogioco a portare avanti la loro battaglia iconoclasta, frantumando le pareti del genere, e i grandi player che osservano, prendono nota e sistemano le meccaniche delle loro grandi IP, nella speranza che si avventurino anche nel lancio di nuove serie e universi ludonarrativi (occhi puntati su Metaphor: ReFantazio di Atlus). Non è ancora il ritorno conclamato degli anni ’90, ma ci siamo meravigliosamente vicini.

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De rerum difficilorum, alla ricerca della difficoltà perfetta – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/262549/de-rerum-difficilorum-difficolta-videogiochi-editoriale/ Sat, 02 Sep 2023 11:07:28 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=262549 Ho comprato Diablo IV perché volevo un gioco con cui spegnere il cervello. Per carità, mi sono subito reso conto di avere avuto molto di più di quello che cercavo, per esempio mi ha colpito fin da subito una cura nei dettagli delle ambientazioni, e in particolare dei dungeon, che mi continua a affascinare, roba da andare in giro e esclamare come un’ebete a bocca aperta “Ma che figataaaa” ogni due per tre. Ma torniamo al punto di questo editoriale, che, come potreste avere intuito dal titolo, si occupa del livello di difficoltà dei nostri cari amati videogiochi, e in particolare del De rerum difficilorum.

NON CI PENSARE, E MENA: SI PARLA DI DE RERUM DIFFICILORUM

Per me, spegnere il cervello non vuol dire che volevo un gioco facile, per niente. Intendo che non volevo uno strategico, un gestionale, o un 4X, generi con cui passo parecchio tempo. Detto questo, sono sempre alla ricerca di una sfida, e l’ultimo capitolo della gloriosa saga Blizzard mi sembrava esattamente quello che faceva al caso mio. Ma proprio al 100%. Cioè, un gioco che ti dice dove andare, e tutto quello che devi fare è ammazzare tutto quello che cerca di ammazzare te. Perfetto, no? E su questo, non mi ha deluso.

Che fastidio quando vedo davanti a me il livello 3 e non lo posso scegliere, per motivi ignoti anche a Lilith

Non vi sorprenderà poi scoprire che ho scelto la classe del Barbaro. Quale altra sarebbe stata più adeguata alle mie esigenze? Quindi, fin qui tutto bene, ma adesso arriva la lagna. La mia lamentela sta nel non potere scegliere il livello di difficoltà. Cioè, sì, ho potuto scegliere il livello di mondo 2 invece che il livello 1, ma miseriaccia che fastidio quando ho visto davanti a me il livello 3 e non ho potuto sceglierlo, per motivi a me sconosciuti, e di certo ignoti anche a Lilith. Voglio dire, potrò ben decidere di volermi mettere nelle grane da solo, no? No, non posso.

difficoltà videogiochi

Prima devo finire la campagna. Però qualcuno dovrebbe spiegare agli sviluppatori che per gente normale potrebbe essere un’enorme perdita di tempo. Con la mia barbara, mi butto a capofitto in mezzo a più nemici possibili, tiro giù due urli e mi metto a roteare come una pazza. Giusto il tempo che mi dura il berserk, e non rimane in piedi nessuno. Solo qualche boss di fine quest mi ha messo un po’ in difficoltà, ma per ora non sono ancora morto. Nel momento in cui scrivo ho finito il primo atto e fatto qualche missione del secondo e terzo, quindi sicuramente sono ancora all’inizio, ma altrettanto chiaramente fino a questo punto non sono mai stato messo in difficoltà. Così non va bene, dai, è un peccato.

PENSACI, E MENA LO STESSO

Un altro titolo in cui ho avuto un problema simile è stato Spider-Man: Morales. Mi è piaciuto molto sotto tanti altri aspetti, ma l’ho giocato alla difficoltà più alta disponibile e non l’ho trovato così sfidante, soprattutto da quando viene sbloccata l’abilità di invisibilità temporanea. A quel punto, appena ti beccano, tàcc, l’attivi e ti rifugi da qualche parte per poi riprendere a eliminare i nemici uno alla volta. L’altro aspetto che non mi esalta sulla taratura della sfida è che, ai livelli più alti, si tratta quasi sempre di avere a che fare con più nemici, che picchiano più forte e hanno più vita. Non sarebbe male se cambiassero anche le routine di intelligenza artificiale, rendendo i nostri avversari più pericolosi per via del loro comportamento. Quello che succede il più delle volte, invece, è che aumentare il livello di difficoltà non significa aumentare il livello di adrenalina, ma si arriva a dover affrontare un mero esercizio metodologico, di cautela un po’ stucchevole, per sfoltire le fila della massa dei nostri nemici. Sono un incontentabile, condannato all’eterna insoddisfazione? Non lo so, può essere, ditemelo voi. A voi non capitano delusioni simili? In realtà, adesso che ci penso, posso portare almeno un esempio positivo. Sto parlando di Sifu. Molto, molto bello Sifu. Tra l’altro, quando è arrivato su Steam, c’era già l’aggiornamento Arenas, e questo mi ha aiutato non poco.

difficoltà videogiochi

Infatti, ho fatto una prima partita per vedere com’era, e non sono arrivato lontano, diciamo neanche a metà del secondo livello. Dopo questo tentativo, ho passato un paio di serate nelle suddette Arene, che, sfida dopo sfida, mi hanno allenato a diversi tipi di situazioni; ancora mi ricordo quella in cui non è possibile usare la parata. Quante volte l’avrò rifatta, nemmeno saprei dirlo, ma quanto mi è stata utile! Il gioco di Sloclap è tarato sulla difficoltà che cerco io: anche Sifu è un gioco in cui non devo attivare le parti del mio cervello atte a prendere elaborate decisioni manageriali, l’azione fa da assoluta padrona, ma è un’azione che richiede un’attenzione sempre vigile, pena un rapido incontro con la schermata di game over. Arrivati a questo punto, sarebbe quasi criminale non menzionare almeno un soulslike o due, fra quegli esempi cruciali di videogiochi sfidanti. Fino a adesso, in realtà io non li ho amati.

Molto, molto bello Sifu

Certo, le cose possono cambiare, e ne parlavo proprio nel mio ultimo editoriale, in cui racconto come abbia di recente provato a dare una seconda possibilità ai giochi di FromSoftware. Con Elden Ring non sta andando male, ma sono piuttosto riottoso a portarlo come manifesto dell’archetipo del livello di difficoltà tarato in maniera perfetta. A parte che gli amanti dei soulslike potrebbero dirmi che il titolo open world degli sviluppatori nipponici è molto più facile rispetto alla trilogia Dark Souls, ma rimango non convinto. Il rischio della frustrazione è sempre dietro l’angolo, e per me ciò significa superare una linea che non sono disposto a oltrepassare nel tempo che dedico a un hobby che dovrebbe rilassarmi e divertirmi. Insomma, c’è un limite a tutto. Nello stesso spirito, capisco che ognuno di noi decide dove tracciare questa linea nella sabbia. Il mio Spider-Man: Morales, insomma, potrebbe essere l’Elden Ring di qualcun altro.

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Pizza, Cola e Live Service – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/262240/pizza-cola-e-live-service-editoriale-opinione/ Sat, 26 Aug 2023 10:50:53 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=262240 Abbiamo tutti le nostre debolezze giusto? Partendo da quel bastoncino di nicotina che qualcuno come me si dedica la sera, fuori da ogni impegno quotidiano, mentre vediamo il fumo che passa dalle persiane della finestra e la luce della luna ne evidenzia la consistenza. Un momento tutto per noi.

In queste ultime settimane, complice un’operazione – la seconda – per la liberazione del tunnel carpale, in piena ripresa ho dedicato tantissime ore a rigiocare Homeworld, i primi due capitoli, e divoro di invidia il buon Marco che recentemente è riuscito a giocare a una prima build dell’atteso terzo capitolo.homeworldNel pieno dell’ennesima battaglia sono pienamente reso conto che, tolto il caldo infernale, in quei momenti ero davvero in uno stato di grazia assoluto, qualcosa che supera il semplicistico concetto di comfort zone per abbracciare l’estasi pura, paragonabile allo stato dell’arte. In quei pomeriggi ci sarebbe stata bene anche una nuova run a Gothic (sono un caso disperato, lo so), una bella pizza e una bibita gasata. Situazione videoludicamente paradisiaca. E sapete quale altro momento bramo? Il prossimo futuro, con l’industria che sembra aver puntato le orecchie tutte sulla community, nel dettaglio dei desideri per i titoli live service… e ritorno al punto principale: sì, ognuno ha una sua debolezza e la mia sono proprio i live service.

pur criticando questa malsana direzione da parte dei dev di concentrarsi sui Live Service, non posso nascondere la voglia e il piacere di giocarli tutti

Non è questione di parlare nuovamente di questo o quell’altro titolo, bensì sottolineare una curva crescente nella fruizione dei titoli di questo tipo, che se una parte di me urla di gioia, l’altra parte è terribilmente allarmata per la direzione che l’industria sta prendendo, anche perché allo stato attuale sono più i live service chiusi rapidamente che quelli pienamente attivi.

Su le maniche e via con il listone: The Division 2 è stato tacitamente abbandonato da Ubisoft, o almeno le potenzialità e la solidità del progetto sono tali che non si spiega il perché di questo suicidio. Destiny 2 vive, sopravvive e si evolve – bene, sono contento – ma oltre a questi esempi cosa abbiamo? Marathon? Dunque Bungie nel prossimo futuro non farà altro che progetti simili? Anthem è morto e sepolto, gran bel potenziale alla mercé di una gestione/visione aziendale totalmente folle (o almeno, come si può definire la scelta di un publisher di mettere sul mercato un gioco incompleto?). Outriders sembrava aver preso una direzione interessante, ma i risultati riguardo le vendite, nonostante il DLC Worldslayer, non sono mai stati incoraggianti, segnando un silenzioso flop a cui ha fatto seguito un totale silenzio da parte di People Can Fly, che di fatto ha lasciato il prodotto in stand by. Marvel’s Avengers neanche lo prendiamo in considerazione… Quanto impegno ci vuole per far fallire un progetto che ha “Avengers” nel titolo?

nonostante la lista infinita di live service che hanno fallito e sono stati chiusi, si continua a puntare fortemente su questo genere

Nonostante questa distesa di croci e cadaveri, che costellano un terreno teoricamente fecondo di tante altre produzioni, la direzione di alcuni sviluppatori sembra invece diversa da una risposta logica, insistendo sempre di più sul genere, puntando alla community, agli appassionati, al chiacchiericcio nel web sperando che qualche content creator possa venire incontro ai loro sogni, alimentando la discussione attorno al titolo. Poi ci sono i casi eccezionali – il successo di Remnant 2, di chi lavora duramente a capo chino senza distrarsi dalle mode – che tendono a durare nel tempo, toccando però nuclei di appassionati sempre modesti.

Live Service remnant 2

Con un occhio attento ai titoli che vengono lanciati, con passione e critica severa che attraversano i miei giudizi, al netto di una realtà futura che in parte condanno, non riesco però a rassegnarmi all’idea che comunque sarò subito lì pronto a provarli tutti, a dare a ognuno di questi titoli, dal già citato Marathon al Suicide Squad di Rocksteady una possibilità. È pur sempre una tazza di tè che apprezzo senza mezzi termini, che si accompagna assieme perfettamente al junk food o zuccheri diluiti in bevande colorate.

una tazza di tè che si accompagna assieme perfettamente al junk food o zuccheri diluiti in bevande colorate

La consapevolezza che sono prodotti che possono far male, da usare con parsimonia, eppure non riesci a staccartene. Un godimento che è anche un suicidio morale, una corsa consapevole ma famelica che mi porta ancora oggi a spendere ore dietro a questo genere, a sperare che di colpo i server di Outriders possano tornare a riempirsi come nelle prime settimane dopo il lancio. Quando e se succederà io sarò lì, pronto a trangugiare tutto quello che uscirà fuori, con l’unico barlume di lucidità a ricordarmi che, beh, sto indirettamente aiutando lo spostamento del focus ludico verso lidi non propriamente positivi.

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Dieci anni dopo Dark Souls ci ho riprovato con Elden Ring – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/261062/dieci-anni-dopo-dark-souls-ci-ho-riprovato-con-elden-ring-lopinione/ Sat, 05 Aug 2023 11:04:14 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=261062 Tutto si può dire tranne che la mia posizione su Dark Souls fosse equivoca. Ci avevo dedicato un editoriale e il titolo parlava da solo. Mica facciamo clickbait, noi di TGM. E l’opinione che mi ero formato ha poi influenzato le mie scelte negli anni successivi, nel senso che, banalmente, non avevo acquistato altri titoli di FromSoftware.




Non è stato semplice, in particolar modo con Sekiro, perché l’ambientazione nipponica mi attira da sempre, quindi la tentazione era stata forte. L’uscita di Elden Ring fu l’ennesima picconata al muro della mia convinzione, che ormai mostrava evidenti segni di prossimo cedimento. Fin da quando lessi la nostra recensione, parte di me aveva capito che, prima o poi, avrei comprato questo esperimento open world, facendo così un secondo tentativo con i GDR della casa nipponica.

LA CONGIUNTURA ARMORED CORE-ELDEN RING

Aspettavo dunque un segnale dagli dei videoludici, e in effetti si è presentata una congiuntura astrale piuttosto curiosa: proprio nelle settimane coincidenti con gli ultimi saldi estivi di Steam, ho partecipato all’evento di anteprima di Armored Core VI Fires of Rubicon, e quindi parte di me ha pensato che non sarebbe stato male prepararmi con un po’ di Elden Ring. Sì, lo so, non ci vuole molto a convincermi. Prima di far partire la prima partita, ho sentito la necessità di studiare un po’ e vedere quali tipi di build fossero consigliate per i principianti, nonostante fossi ben conscio che qualsiasi personaggio considerato “OP”, lo sarebbe stato solo in riferimento agli standard di FromSoftware.

Ho scartato l’Astrologo perché preferivo un approccio melee, e quindi ho scelto il guerriero con l’idea di farne un personaggio basato sul sanguinamento. Pronti via, ho scoperto che c’era anche una sezione di tutorial. Wow, non me l’aspettavo. Poi, uscito dalla cava iniziale (che mi ha ricordato un po’ l’idea del sotterraneo d’apertura di Elder Scroll IV Oblivion), sono sbucato a Limgrave, con il suo bellissimo paesaggio dominato dall’albero d’oro in lontananza. Non so cosa sia esattamente né che nome abbia, quindi perdonate la descrizione fuori canone. Vicino al primo falò; o, ancora meglio, il primo luogo di grazia, ho visto un cavaliere bello grosso e ho subito voluto vedere di che pasta fosse fatto Elden Ring. Pasta FromSoftware ovviamente, a giudicare dalle legnate che ho preso, senza nessuna possibilità di appello. Nessun problema, comunque, si trattava giusto di un test, e l’ho preso quasi come un suggerimento da parte degli sviluppatori, che sembravano dirmi “Guarda che questo è un open world, mica devi per forza seguire il sentiero tracciato”.

Allora così ho fatto, ho seguito gli scogli a ovest, ho trovato qualche povero zombie che mi è quasi dispiaciuto abbattere, e sono arrivato al primo dungeon che ho incontrato (saltando il luogo di grazia della chiesa di Elleh, ma questo non lo sapevo). Le piccole segrete sono state molto illuminanti per me. In fondo al corridoio c’era una stanza, dove ho visto un mostriciattolo non meglio identificato

E poi ho conosciuto il signor Margit. Mamma mia quanti schiaffi mi sono preso. Tanti, tanti schiaffi

Mi sono avvicinato con cautela e, per quanto era ovvio che una trappola fosse nell’aria, sono rimasto sorpreso dall’agilità dell’altro nemico che mi ha attaccato da dietro un angolo della stanza, e nel giro di pochi secondi sono morto. Al tentativo successivo, forte dell’esperienza, li ho eliminati e sono proseguito nel dungeon, che ho trovato un bijoux di level design: compatto, con una struttura quasi a spirale dove la verticalità aumenta il senso di esplorazione e allo stesso tempo viene usata a scopi pratici per evitare back-tracking. Ho molto apprezzato.

Oltretutto, la posizione del luogo di grazia permetteva di arrivare alla stanza del boss finale, inizialmente chiusa da una leva collocata alla fine del sotterraneo, senza doversi scontrare con nessun nemico, che ho trovato molto comodo. Il boss finale era una sorta di grosso gatto meccanico sputafuoco con una corona al collo e uno spadone così grosso che quasi toccava il soffitto. Abbastanza potente, ma molto lento. Mi ha ucciso qualche volta, ma vedevo che poco a poco stavo imparando come affrontarlo, e sono riuscito a sconfiggerlo nel giro di pochi tentativi, forse cinque o sei. Non ricordo esattamente, ma quello che conta è che non è stato frustrante e sono andato a dormire con una bella sensazione senza essermi privato di ore di sonno.

LO SHOCK DA MELINA A MARGIT

Tutto bene quindi? Fino ad ora, sì. Presto per dirlo? Sicuramente sì, non ci sono dubbi. Nella seconda serata con Elden Ring sono andato avanti, ho parlato con Melina in modo da iniziare a salire di livello, ho affrontato dei soldati che ho abbattuto con più facilità di quello che pensavo, mentre solo il loro tenente mi ha dato qualche difficoltà iniziale. Poi ho tirato giù un gigante al secondo tentativo sulla via verso un castello. Mi è piaciuto molto quando ho notato che proprio quel gigante, quanto lo portavo alla luce del sole, si copriva gli occhi con una mano, il che mi dava maggiore margine di manovra per i miei attacchi. Proprio un bel tocco, anche se mi sarebbe piaciuto capirne di più su lore sottostante, sul background di quel tipo di nemico. Ma niente, questa cripticità è uno degli aspetti dei GDR di FromSoftware che fatico a mandar giù e che sto ritrovando in pieno in Elden Ring. Tra altri soldati e qualche lupo, stava andando tutto liscio. Troppo, forse.

Elden Ring

Ma non ci facevo troppo caso, forse perché ero estremamente preso e affascinato dal mondo di gioco. Che spettacolo la salita sulla collina dove il vento spazza con forza ogni albero nelle vicinanze! Quel moto delle fronde unito all’effetto sonoro sibilante delle raffiche di vento mi facevano pensare di essere proprio lì, trasportato magicamente nel regno di Limgrave, avanzando con fatica verso un imponente castello. E poi al castello ci sono arrivato. E ho conosciuto il signor Margit. Mamma mia quanti schiaffi mi sono preso. Tanti, tanti schiaffi. Il problema era che, al contrario del boss del mini-dungeon, non vedevo alcun miglioramento, nemmeno dopo un bel po’ di tentativi. Soprattutto, quando riuscivo a colpirlo, la quantità di danno che gli facevo era davvero minima, e dopo una rapida stima ho pensato che, anche se fossi riuscito a non farmi mai colpire, sarei dovuto andare avanti così per un quarto d’ora almeno

Fin da quando ho letto la nostra recensione, una parte di me aveva capito che avrei comprato Elden Ring

Siccome non sono masochista fino a questo punto, ho deciso di fare una breve ricerca, e ho così scoperto che in sostanza ero arrivato del tutto impreparato allo scontro. Innanzitutto, ero a un livello molto inferiore rispetto a quello consigliato per affrontare Margit, e poi non avevo né capito come evocare il PNG che mi poteva aiutare, né tantomeno sapevo come funzionavano gli spiriti. Su questo, ammetto che la responsabilità è mia: non avevo seguito il suggerimento di evocare il cavallo-fantasma e, quindi, non ero arrivato a sbloccare gli spiriti. Ma non l’avevo fatto solo perché non avevo ancora sentito la necessità di coprire spazi con una cavalcatura. Mi sembrava quasi un peccato percorrere di fretta quelle magnifiche lande. Poco male, ho capito di aver perso l’equivalente di quasi un livello intero di rune, ma ho anche scoperto che ho un sacco di cose da fare prima di tornare dal mio simpatico nuovo amico.

Elden Ring

In sostanza, mi sa che mi sono imbattuto fin da subito nelle gioie e dolori della struttura open world: è vero che sono arrivato a una boss fight prima di avere davvero qualche chance di vittoria, ma al tempo stesso adesso non sono finito in un vicolo cieco, e mi basta tornare indietro e esplorare un’altra parte dell’affascinante mondo di Elden Ring. Tutto ciò vuol dire che mi rimangio quello che ho detto di Dark Souls? Assolutamente no, è davvero troppo presto per arrivare a un dietro front totale, e poi, in fondo, sarebbe poi così male cambiare punto di vista?

Tutto ciò vuol dire che mi rimangio quello che ho detto di Dark Souls? Assolutamente no, è davvero troppo presto per arrivare a un dietro front totale

Gli anni passano e la nostra esperienza videoludica cresce, facendo evolvere le nostre esigenze. Io, per esempio, è da un po’ che sento la necessità di un livello di difficoltà superiore a quello che trovo di solito. Ma di questo ne parliamo un’altra volta.

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Abbiamo bisogno di PS5 Pro? – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/editoriali/260768/abbiamo-bisogno-di-ps5-pro-lopinione/ Sat, 29 Jul 2023 12:02:07 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=260768 Nel 2016 PS4 Pro e Xbox One X sembravano un’ottima idea – a parte l’ossessione muskiana per le X a Redmond. E in effetti quasi una PS4 su cinque vendute era una Pro, e il 40% delle unità vendute dipendeva dalla voglia di aggiornare il proprio hardware. Ma adesso che siamo nel 2023 la mossa ha ancora senso?




La nona generazione è una generazione strana. Non poteva che essere altrimenti, visto che è iniziata durante una pandemia con tutto quello che ne è conseguito dal punto di vista sociale e industriale. Negli anni di lockdown si è consumato tanto intrattenimento digitale, ma si è anche faticato a produrlo. E si è faticato soprattutto a distribuire le piattaforme su cui farlo girare. Questo si è tradotto in una serie di rinvii quasi sistematica e nella necessità di “allungare” l’ottava generazione insistendo sul supporto cross-gen a PS4 e One, in barba a tutti i proclama per cui si credeva nelle generazioni. Viste queste premesse è inevitabile parlare di una generazione che, ormai quasi arrivata a metà del suo corso, deve ancora mostrare qualcosa di davvero soprendente. Praticamente tutti i videogiochi-evento degli ultimi 3 anni erano fruibili anche su PS4 e Xbox One: Elden Ring, Hogwarts Legacy (per quanto arrivato in differita sulle vecchie macchine), buona parte dei First Party Sony. C’è sicuramente qualche eccezione – Returnal è stato ingiustamente sottovalutato da questo punto di vista – ma il sentimento di scetticismo attorno a PS5 e Xbox Series X è comprensibile. E con queste premesse va da sé che chiedersi se c’è davvero bisogno del modello Pro di hardware che devono ancora mantenere le loro promesse sia uno step naturale.

NON CI SONO PIÙ LE MEZZE GENERAZIONI PLAYSTATION

È chiaro che dal punto di vista commerciale una ratio ci sia. Se il 40% delle unità di PS4 Pro vendute sono state acquistate da chi possedeva già una PS4 e voleva un upgrade, è plausibile che un certo mercato per una eventuale PS5 Pro ci sia comunque. Banalmente l’upgrade sarebbe appetibile con qualche offerta di permuta del vecchio modello per poter avere a disposizione altri due anni di garanzia ormai esauriti per il modello base – sempre non si sia pagata un’estensione al momento dell’acquisto. In quest’ottica, considerando che chi al momento prende le decisioni in PlayStation ha a più riprese dimostrato di portare avanti una strategia rivolta all’uovo oggi (e alla monetizzazione subito) più che alla gallina domani, la sensazione che una PS5 Pro possa in effetti uscire sul mercato c’è. E a quel punto è difficile ipotizzare che Microsoft non si allinei all’offerta, anche perché dopotutto la strategia di Phil Spencer e i suoi è abbastanza chiaramente quella di occupare un po’ tutte le fasce di mercato, dall’entry level di Series S fino alla Master Race più spinta. Quello che manca, però, è l’altro 60%.

La Next Big Thing era quell’8K che sembrava comunque lontanissimo, per mettere sul mercato delle console dove il massimo della risoluzione possibile era 1080p non sembrava un’idea sbagliata

Quando nel 2013 uscivano PS4 e Xbox One base nelle nostre case i pannelli erano ancora Full HD. Il 4K sembrava essere una tecnologia di transizione, incapace di imporsi sul mercato nel corso dei successivi 6-8 anni con grandi numeri. La Next Big Thing era quell’8K che sembrava comunque lontanissimo, per mettere sul mercato delle console dove il massimo della risoluzione possibile era 1080p non sembrava un’idea sbagliata. Tanto più che si trattava di macchine figlie di un periodo di crisi e che dovevano costare poco, anche meno di quello che costavano al lancio PS5 e Xbox Series X – figurarsi rispetto ai costi di oggi, maggiorati di 50€ rispetto al day one per la prima volta nella storia del videogioco. Nei tre anni successivi, il mercato ha accelerato, e pannelli 4K hanno iniziato a trovare posto nelle nostre case.In questo, forse, è stata complice anche l’esplosione di Netflix e in generale delle app di streaming, con la necessità di rendere più “smart” i televisori e l’opportunità di distribuire dei contenuti ad una risoluzione “ultra HD” che la televisione tradizionale stava in buona parte ignorando. Non lo so. Sta di fatto che andando veloce al 2016 lo scenario era molto diverso da quello del 2013, e non supportare il 4K era un problema. Anche per questo Sony e Microsoft hanno tirato fuori una mezza nuova generazione, che trovava il suo appeal anche e soprattutto grazie a queste nuove possibilità. dal 2020 al 2023 però non è successo nulla di questo: siamo ancora in buona parte ancorati al 4K. A questo punto si potrebbe però obiettare che se siamo fermi sulla risoluzione lo stesso non vale per il frame-rate. Anzi, in realtà vale, ed è proprio questo il problema.

PS

IL COSTO DEI VIDEOGIOCHI

Esistono videogiochi bloccati sui trenta fotogrammi al secondo che proprio per questo hanno creato scandalo. Ultimo e probabilmente più rumoroso Starfield, dove per quanto ci si sia premurati di specificare che si tratta di una “scelta artistica” il sospetto rimane. Verrebbe da pensare che un’altra mezza generazione potrebbe essere una panacea, da questo punto di vista. Solo che nel mondo reale la panacea è e rimane un mito, e ogni farmaco ha le sue controindicazioni. Nello scenario attuale gli sviluppatori, guardando esclusivamente alle console domestiche, devono garantire che le loro creazioni girino su tre configurazioni diverse: PS5 (che non ha differenze di hardware tra standard e digital edition), Xbox Series X e Xbox Series S. In particolare Series X e Series S hanno delle differenze marcate a livello di memoria. Series S ha solo 10 GB di RAM contro i 16 del modello superiore, ripartiti in 8GB capaci di viaggiare a 224 GB/s e 2 a 56 GB/s. Di contro su Series X ci sono 6 GB con una larghezza di banda di 336 GB/s mentre i rimanenti 10 leggono e scrivono dati a 560 GB/s – nel caso di PS5 tutti e 16 i giga di RAM hanno la stessa velocità, 448 GB/s. Tutto questo per dire che la parte di memoria più veloce di Series S è comunque decisamente più lenta di quella più lenta (e grande uguale) di Series X. Si tratta quindi di tre configurazioni hardware diverse che vanno supportate allo stesso modo. E in particolare tutto quello che viene prodotto, a meno che non si opti per un’uscita in esclusiva su PlayStation, deve poter girare tanto su Series S quanto su X e PS5.

Nello scenario attuale gli sviluppatori, guardando esclusivamente alle console domestiche, devono garantire che le loro creazioni girino su tre configurazioni diverse

Introdurre due nuovi modelli – che per forza di cose dovrebbero avere un hardware diverso, e superiore, a quelli attuali – porterebbe il numero di configurazioni da supportare da tre a cinque, alzando i costi di sviluppo. Costi di sviluppo che sono già raddoppiati rispetto alla passata generazione, visto che grazie alla diatriba tra Sony, Microsoft e la CMA sappiamo che Horizon Forbidden West è costato a Sony più di 200 milioni, contro i circa 100 di Zero Dawn e delle altre produzioni First Party di ottava generazione. Questo raddoppio nei costi si è tradotto in un aumento di “soli” 10$/10€ dei prezzi di copertina, che chiaramente non è in grado di assorbire la differenza di spesa. L’uscita di una PS5 Pro e di una XBox Series XL (il branding continua ad essere problematico a Redmond) non si tradurrebbe ovviamente in un abbandono delle console già presenti sul mercato. Se Series S rappresenta già oggi un potenziale collo di bottiglia – compensato in parte dal cap della risoluzione massimo a 1440p – questo non potrà che peggiorare con l’andare avanti della generazione, impedendo alle eventuali macchine di mezza generazione di esprimere pienamente il loro potenziale.

PS5

In tutto questo, comunque, rimane il fatto che al momento questa generazione non ha ancora partorito quel miracolo tecnologico o anche solo esperienziale tale per cui ci si possa congedare in pace. DualSense prometteva meraviglie, ma non è mai davvero andato oltre quanto faceva vedere Astro’s Playroom al lancio di PS5 – gioco peraltro preinstallato sulla console.

Per quanto ci sia una grossa giustificazione per tutto questo, io non sento il richiamo dell’upgrade

Anche Series X al di là del marketing per il momento si è dimostrata “la console più potente della storia” solo andando a guardare i teraFLOPS, senza riuscire a sorprendere all’atto pratico. Per quanto ci sia una grossa giustificazione per tutto questo, io non sento il richiamo dell’upgrade. Anche perché il prezzo dovrebbe essere a questo punto attorno ai 599€ per poi giocare soprattutto indie e produzioni AA che per il momento hanno dimostrato di girare egregiamente anche su Steam Deck.

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Daymare 1994: Sandcastle, l'horror italiano si evolve – Intervista https://www.thegamesmachine.it/highlight2/260472/daymare-1994-sandcastle-lhorror-italiano-si-evolve-intervista/ Tue, 25 Jul 2023 10:41:34 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=260472 In attesa di mettere le mani sull’imminente versione definitiva di Daymare 1994: Sandcastle abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con uno dei membri più autorevoli di Invader Studios, team che sta portando sempre più in alto la bandiera dei survival horror “Made in Italy”.

Sviluppatore / Publisher: Invader Studios / Leonardo Interactive / PEGI: 18+ Data d’uscita: 30 agosto 2023 Genere: Survival Horror / Disponibile su: PC (Steam, GOG), PS4, PS5, Xbox One, Xbox Series X|S

Michele Giannone, in qualità di Direttore Creativo del gioco, ci ha svelato dettagli sulla creazione del nuovo gioco (che, ricordiamo, è un prequel), sui futuri progetti e su una causa per stalking che stanno per intentare nei confronti di un componente della redazione di The Games Machine. Chissà chi è 🙂

Michele Giannone, direttore Creativo di Invader Studios e (ovviamente) grandissimo appassionato di survival horror.

TGM: Il primo Daymare è stato una graditissima sorpresa, che ha ricevuto ottimi consensi un po’ ovunque. Sapete però che confermarsi o migliorarsi con il secondo titolo è sempre difficile e pochi sono riusciti nell’intento. Come vi siete approcciati a questo difficile passo?

Michele Giannone: Evolvendo e rinnovandoci. Sapevamo che con un semplice more of the same avremmo potuto bissare, se non più, i risultati di Daymare: 1998, soprattutto facendo affidamento su un budget superiore e su tutta l’esperienza ottenuta con lo sviluppo del primo titolo. Abbiamo invece deciso di osare, optando per un prodotto ancora più ambizioso del precedente e per molti versi originale, sia in termini di meccaniche che di feature. Sapevamo che poteva essere un rischio, ma abbiamo voluto definire la nostra identità con un titolo che non fosse visto “solo” come la copia a basso budget di una serie tripla AAA, per quanto in passato ci abbia fatto piacere l’accostamento a mostri sacri del genere. Le demo rilasciate nel corso degli ultimi mesi, per fortuna, sembrano confermare il fatto che siamo migliorati sotto ogni punto di vista rispetto al passato e che le nostre idee e scelte hanno reso Daymare: 1994 Sandcastle un titolo davvero originale, capace di unire un impianto classico a delle soluzioni uniche che lo rendono diverso da qualsiasi altro esponente del genere. Adesso non rimane che attendere la conferma finale al 30 Agosto con il rilascio del gioco su tutte le piattaforme.

TGM: Molti team per il proprio secondo lavoro scelgono un sequel diretto o qualcosa di completamente diverso. Voi invece avete scelto un prequel, è stata una decisione presa subito dopo la fine dello sviluppo del primo Daymare per dare maggiore profondità al background della serie o avete preso in considerazione anche altre possibilità?

Michele Giannone: Abbiamo preso in considerazione diverse possibilità, ma c’è voluto poco per capire che quella del prequel era la soluzione più interessante sia da un punto di vista dello sviluppo che della composizione di una trilogia. Non abbiamo mai nascosto che nella nostra mente Daymare: 1998 fosse il primo di tre capitoli, e l’universo presentato nel gioco andava da subito ad aprirsi a connessioni di trama legate sia al passato che al futuro. Con Daymare: 1994 Sandcastle abbiamo quindi deciso di preparare il terreno per quella che, nella nostra volontà, sarà l’epica conclusione della trilogia.

TGM: Qualcuno in Capcom ha sicuramente giocato Daymare 1998. Che giudizi hanno espresso sul vostro lavoro i colleghi giapponesi e che consigli vi hanno dato per il vostro futuro?

Michele Giannone: Più che il fatto che sia piaciuto o meno, ci ha fatto un enorme piacere il riconoscimento di un lavoro enorme realizzato un team piccolo come quello che eravamo fino a pochi anni fa. Un prodotto estremamente ambizioso per le neanche dieci persone che l’hanno realizzato. Questo è il tipo di feedback che va al di là dei difetti tecnici e dei confronti con i campioni del genere che ci ha aiutato di più a crescere ed a prendere piena consapevolezza delle nostre capacità tecniche e creative. Certo il giudizio finale è sempre del pubblico e della stampa, ma sappiamo, da buoni giocatori e fan del survival horror, come ci piace e cosa no in un gioco e sopratutto cosa vorremmo in un titolo di questo genere. Ottenere il plauso di più giganti del settore e personalità di spicco, se non leggende, ci ha regalato una soddisfazione e una spinta enormi che abbiamo veicolato al meglio, specie nella realizzazione di Daymare: 1994 Sandcastle.

TGM: Nelle prime fasi di sviluppo di Daymare 1994 quali elementi del gioco precedente avete pensato fin dall’inizio di cambiare perché non vi avevano soddisfatto, e quali altri invece avevate tenuto nello scrigno proprio per un eventuale sequel?

Michele Giannone: Non ci avevano soddisfatto quegli aspetti in cui eravamo limitati soprattutto in termini di budget. Facial e body animations su tutti. Abbiamo accresciuto le nostre skills e con un supporto economico di livello siamo riusciti a migliorare notevolmente questo ed altri aspetti che nel primo titolo erano rimasti indietro rispetto a tutto il resto. Ovviamente, abbiamo potenziato anche quello che aveva convinto sia noi che il pubblico e la stampa, come la grafica generale, l’illuminazione, il comparto audio, le ambientazioni e lo storytelling.

TGM: Il primo Daymare ci metteva nei panni di tre differenti personaggi, qui invece (a meno di sorprese… wink wink) vestiremo i panni di una sola protagonista. Anche questa è stata una scelta legata ai feedback del gioco precedente o avete fatto questa scelta per dare alla narrazione una dimensione più “concentrata”?

Michele Giannone: Hai colpito nel segno. Con il primo titolo l’idea era quella di far ricostruire al giocatore la storia da tre punti di vista diversi, collegando gli eventi vivendoli in prima persona. Il rischio di questa strategia era però quello che i giocatori potessero immedesimarsi con difficoltà in più personaggi, disperdendo l’empatia. Con un solo protagonista invece è più semplice creare un legame consistente tra il giocatore e il personaggio, e siamo certi che i giocatori ameranno scoprire passato, presente e futuro della nostra coraggiosa ed eroica Dalila Reyes.

TGM: Parliamo del Frostgrip, che, a quanto pare, sarà uno degli elementi chiave del gameplay di questo nuovo Daymare. L’introduzione di questo nuovo giocattolo sembra poter modificare non solo i combattimenti ma per certi versi anche l’interazione con il mondo di gioco.

Michele Giannone: Il Frost Grip è forse l’elemento distintivo più importante ed originale del gioco. Grazie a questo device infatti, non solo sarà possibile combattere le creature avversarie attuando un vero e proprio crowd control, ma anche risolvere puzzle ed effettuare interazioni ambientali che lo rendono un compagno di battaglia efficiente e affidabile. Come se non bastasse, grazie alla presenza di diverse upgrade station, sarà possibile potenziarlo a proprio piacimento rendendolo uno strumento imprescindibile per poter sopravvivere nei sotterranei dell’Area 51.

TGM: Negli ultimi due anni le uscite di survival horror si sono moltiplicati a dismisura e molti altri sono in arrivo. Dopo Sandcastle a brevissimo termine usciranno Alone in the Dark, Alan Wake 2 e successivamente il remake (l’ennesimo) di Silent Hill 2. Non pensate che dopo il lungo periodo di vacche magre per il genere ora si rischi il sovraffollamento?

Michele Giannone: Possiamo dire che ormai sono diversi anni che il genere è tornato ai suoi fasti, sopratutto sotto forma di titoli in terza persona. Già dall’uscita di Daymare: 1998 abbiamo avuto modo di confrontarci con i campioni del genere che hanno dominato il mercato, ma fortunatamente proprio il rinvigorimento del genere e la voglia crescente del pubblico di vivere un incubo dopo l’altro ci ha permesso di raggiungere numeri incredibili che salgono tutt’ora a 3 anni dalla release. Con Daymare: 1994 Sandcastle ci aspettiamo la stessa cosa, magari con numeri ancora migliori e la fiducia in un titolo che ha dei punti di forza unici che lo rendono davvero originale rispetto a qualsiasi altro titolo del genere.

TGM: Daymare 1994: Sandcastle fondamentalmente darà il via alla nuova stagione di uscite, che si preannuncia soprattutto nel periodo ottobre/novembre ricca come poche altre nella storia. La data del 30 agosto è stata scelta appositamente per tenervi lontani da pericolosi avversari o fin dall’inizio avevate preventivato un’uscita a fine estate?

Michele Giannone: Diciamo che come è facile pensare è il publisher che decide la data di uscita, ma oltre al discorso competitor e periodo più o meno pieno va detto che ci sono altri aspetti che spesso non vengono tenuti in considerazione e che invece vanno a influire sulla scelta della data. Una su tutte, per esempio, la produzione e distribuzione delle copie fisiche, che ci fa molto piacere confermare saranno anche sottoforma di Collector’s e Limited edition davvero splendide.

Daymare 1998 console uscita

TGM: Dobbiamo ringraziarvi per aver sdoganato anche in Italia il genere survival horror e aver stimolato altri team a dedicarsi a questo genere. Dobbiamo però dirvi grazie anche perché grazie a voi Capcom ha dato vita a una serie di remake molto attesi. Potete raccontarci un retroscena sul vostro legame con Capcom che non avete mai rivelato prima?

Michele Giannone: Credo che in realtà non ci siano episodi che non abbiamo raccontato. Grazie alla tanta curiosità della stampa e dei fan del genere per una storia talmente unica e particolare, abbiamo sviscerato in tutte le salse quello che è accaduto le svariate volte che abbiamo avuto la fortuna di incontrare Capcom o che ci siamo avvicinati alla saga di Resident Evil. A questo punto, spero che il retroscena più gustoso sia quello che deve ancora arrivare. Mai negato che oltre agli zombie amiamo anche i dinosauri!

TGM: Michele, sei stato gentilissimo e come sempre una ricca fonte di informazioni ma abbiamo un’ultima richiesta da parte di tutta la redazione di TGM: la persona che ti ha bersagliato di domande fino a ora, losco figuro noto alle cronache come Kommissario (alias Daniele Cucchiarelli) da tempo va in giro a vantarsi di conoscerti bene, di essere un tuo fan e addirittura afferma che la vostra è un’amicizia di vecchia data legata dalla comune passione per Resident Evil, nata ai tempi della stampa specializzata. Puoi dirgli qualcosa per farlo smettere o chiedere alle autorità un ordine restrittivo?

Michele Giannone: Dato che rispondo in prima persona, correggo dicendo che sono io ad essere da sempre suo fan. È stato uno dei primi professionisti della carta stampata ed è anche grazie ai suoi articoli se tanti di noi, tra cui io, si sono appassionati a questo settore e ci lavorano dentro in un modo o nell’altro. Da vero fan di Resident Evil quale sono, poi, posso senza dubbio confermare che i gradi di Kommissario se li è guadagnati sul campo… o per meglio dire tra i corridoio di un certo Dipartimento di Polizia.

 

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Acquisti in app: normalità, mance o sistemi predatori? – L'Opinione https://www.thegamesmachine.it/facce-da-tgm-l-opinione/260419/acquisti-in-app-normalita-mance-o-sistemi-predatori/ Sun, 23 Jul 2023 11:33:18 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=260419

Prende il via Facce da TGM – L’Opinione, uno spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi caldi e delicati. Buona lettura!

Mario “Second Variety” Baccigalupi

Gli acquisti in app sono la normalità, delle mance o dei sistemi predatori? Ecco, voglio raccontarvi un episodio increscioso che mi è capitato qualche anno fa. Mi trovavo al concerto di uno dei miei gruppi preferiti, del quale possiedo tutt’ora l’intera discografia in CD, quando con mio grande disappunto scoprì che avrebbero interpretato gli stessi brani che già avevo in digitale. Stavo pagando per ascoltare dei pezzi già acquistati. Ma non è tutto: la maglietta dell’evento, venduta al prezzo di una fontana nel deserto, altro non era che una comunissima t-shirt nera con una foto della band stampata grossolanamente. Indossarla non mi avrebbe reso più intonato, più abile con la chitarra o più carismatico. Il disegno che campeggiava sul mio petto altro non era che un mero accessorio estetico.




Alle mie rimostranze, mi fu risposto che è così che funziona ai concerti. Da sempre. Del resto, quando si afferma di amare la musica, bisogna anche supportarla in qualche modo. Seguire i propri beniamini in tour o comprare merchansiding ufficiale sono alcune delle strade percorribili. O magari ci si può rifiutare di essere un ingranaggio di questa macchina, ma se tutti si comportassero in questo modo, dopo due o tre date deserte, le band semplicemente smetterebbero di organizzare tournée. Perché? Perché non sarebbe più economicamente conveniente.

DUE PESI, DUE MISURE

Qualcuno potrebbe chiedersi il nesso tra le mie disavventure musicali ed i videogame. Proviamo a vederla in questo modo: la discografia della band è la copia, fisica o digitale, del nostro videogioco preferito. L’abbiamo comprato, dunque è nostro. Il concerto è il season pass. Lo stesso gioco, in un contesto speciale. Che si paga a parte. La maglietta è la in app purchase. Non serve a nulla, ma in qualche modo completa l’esperienza. Parliamo di vacanze? Il gioco è il pacchetto all inclusive alle Maldive, il season pass è la gita in catamarano non inclusa nel prezzo, e le microtransazioni trovano forma nell’acquisto di stupidi magneti raffiguranti stelle marine da attaccare sul frigo di casa.

Questo principio teoricamente si può applicare in ogni contesto. Ma guai quando semplicissime logiche di mercato entrano nel mondo del gaming. Microtransazioni, shop virtuali in cui fare la spesa pagando con valuta reale, Season Pass, Battle Pass, Quellochevolete Pass, contenuti aggiuntivi a pagamento e modalità varie di chiedere ulteriori somme di denaro una volta già acquistato il gioco vengono visti come fumo negli occhi. Non sono ancora molti i videogame AAA che adottano questa strategia di monetizzazione, ma è innegabile che il fenomeno sia in aumento, generando preoccupazione in una parte del pubblico che paga senza fiatare l’aggiunta di una miserabile spruzzata di ketchup stantio sulla porzione di patate fritte ma si scandalizza per una skin premium. Che, vale la pena ricordare, nessuno viene obbligato ad acquistare. Se ne rimane lì, discreta, in un angolino dello schermo, mandandoti qualche reminder di tanto in tanto.

¡VIDEOJUEGOS O MUERTE!

Esiste dunque una corrente di pensiero, che molti abbracciano ma pochi sottoscrivono pubblicamente, secondo la quale videogiocare sarebbe un diritto inalienabile, pari a quello alla salute, per cui è accettabile sborsare giusto qualche soldarellino per divertirsi pad alla mano, ma senza esagerare. Superato un certo limite, stabilito non si capisce bene da chi, chiedere soldi per valorizzare il proprio lavoro diventa un mefistofelico raggiro predatorio e va condannato, radendo al suolo la software house e cospargendo di sale le rovine, affinché non cresca più nemmeno uno stelo d’erba. La realtà è che non sempre chi propone acquisti in app è un vampiro, e non sempre chi non abbraccia questa strategia di vendita è un santo. Ma soprattutto, non sta a noi impicciarci del modo in cui un’azienda vuole recuperare il proprio investimento.

Far Cry 6 Lost Between Worlds

Ci sono figure professionali preposte a ciò, e che probabilmente hanno maggior competenza in materia del videogiocatore medio che sbraita. Mettere il becco nelle politiche economiche di imprese private ci catapulterebbe in una sorta di socialismo videoludico, in cui tu produci, noi decidiamo quanto pagarti, e qualora il modello non fosse sostenibile, la colpa è tua e ti arrangi. Non sfigurerebbe dunque nell’isola di Yara in Far Cry 6 un cartellone con scritto “Videojuegos o Muerte”. E ovviamente ti controlliamo, sappiamo che nei tuoi hard disk c’è già un DLC che vorresti farci pagare in seguito, quando saremo ormai dipendenti dal gameplay. Non ci provare nemmeno.

BREAKING NEWS: SVILUPPARE VIDEOGIOCHI COSTA

Ma perché mai gli sviluppatori si starebbero orientando sempre più verso acquisti in app, microtransazioni, pass battaglia, e altre forme di pagamenti extra? Inutile girare intorno alla domanda: per guadagnare di più. E semplificando la questione, tutti questi profitti andranno a finire in tre macro categorie: nuova villa con piscina degli investitori, tasse, e sviluppo di nuovi videogiochi per alimentare il circolo virtuoso. Se fai parte delle persone secondo le quali il CEO di un’azienda quotata al Nasdaq dovrebbe comunque avere il tenore di vita di un comune mortale, sei libero di roderti il fegato per il suo nuovo elicottero. La questione tasse, in un mondo perfetto in cui tutti le pagano come si deve, è molto importante, perché significa che una parte del soldi destinati all’acquisto del mio Pass Battaglia di Fortnite finisce a favore del bene pubblico, magari per costruire ospedali, riparare strade, aiutare i più sfortunati. Ma da schifoso egoista quale sono, è la terza opzione a interessarmi maggiormente: una software house prospera è una software house propensa a investire in nuovi progetti. Alcuni mi piaceranno, altri no, ma alimenterà l’ecosistema videoludico.

activision blizzard king microsoft Call of Duty nintendo

Ricordiamo che Call of Duty: Modern Warfare 2, classe 2009, è costato la bellezza di 250 milioni di dollari, tra sviluppo e marketing, e difficilmente avrebbe reso felici gli investitori se fosse andato in attivo solo di qualche migliaio di euro, considerato il capitale impegnato. In altre parole significa che o il gioco avrebbe riempito le casse di soldi esattamente come il deposito di Paperon de Paperoni, o il futuro del brand di CoD sarebbe stato a rischio. È una serie che non ti interessa? Molto bene, ignorala e amici come prima. Ci giocherelli, ma niente più? Divertiti finché dura, tanto gli store sono pieni di titoli di ogni tipo. Ti ha appassionato al punto da farti sorprendere dall’alba per l’ennesima volta? Direi che una strisciatina di carta di credito ci starebbe tutta, a questo punto.

TUTTE LE SFUMATURE DEGLI ACQUISTI IN APP

Anzi, voglio vederla esattamente in questo modo: il tip per la cianfrusaglia virtuale potrebbe essere una forma di ringraziamento per l’esperienza che abbiamo vissuto in chissà quale mondo fantastico. Che abbiamo pagato, certo, allo stesso modo in cui paghiamo al ristorante, ma se siamo soddisfatti del servizio non esistiamo a lasciare una mancia al cameriere, che magari non vedeva l’ora che ci levassimo dai piedi perché era stanco e voleva solamente andare a casa. Quindi perché non ringraziare Riot Games per Legends of Runeterra, che mi appassiona da tre anni, acquistando un po’ di valuta per gli acquisti in game utilizzando denaro reale? È il mio modo di dire “ottimo lavoro, ragazzi. Continuate così”. Dove starebbe il problema se in un gioco come Diablo Immortal, che mi ha regalato una ventina abbondanti di ore di divertimento, mi ha fatto comprare un season pass? A conti fatti, mi è costato meno di 50 centesimi all’ora.

app

Con Fortnite, sul quale ho trascorso centinaia di ore in coop con mia figlia, al costo di circa 15 euro al mese tra pass e qualche ammennicolo estetico, sarò in debito perenne. È immorale perché ci sono persone che hanno speso una fortuna a Diablo Immortal? Bene, vuol dire che se lo potevano permettere e lo ritenevano adeguato, e più cinicamente hanno probabilmente finanziato e motivato parte dello sviluppo di Diablo IV.

PORTOGHESI DEL GAMING

Ma da dove nasce tutto questo astio verso le strategie di monetizzazione? Da appassionato di videogame, e ora anche in veste di critico, me lo sono chiesto spesso. E sono giunto a due distinte conclusioni. La prima è un amore cieco per il medium, lo stesso per cui ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja, come cantava Pino Daniele, che con somma ingenuità non accetta che alla fine le software house siano imprese, esattamente come lo è il supermercato sotto casa. E lo scopo principale di ogni impresa, prima ancora della soddisfazione del cliente, è la sopravvivenza, e possibilmente la prosperità. E poi ci sono loro. I portoghesi del gaming. Videoscrocconi dediti al free to play che trascorrono ore ed ore in compagnia dei loro giochi preferiti lasciando poi magari recensioni negative negli store più o meno con questo tenore: “molto divertente e ben realizzato, meriterebbe ciqnue stelline però ci sono troppe pubblicità, quindi ne darò solo una”. Poco importa la presenza del pulsante dall’enigmatica scritta “Remove Ads”, poiché se provi a premerlo ti propone – fellone! – un acquisto in app di 1.99 euro, e scusate ma qui proprio non ci siamo, “free” c’era scritto, e “free” deve essere. E va bene, ma se un gioco, cito, “molto divertente e ben realizzato” non merita a tuo avviso il costo di un tramezzino, almeno guardati un po’ di pubblicità su criptovalute e paccottiglia finanziaria.

acquisti in app

Mi sembra il minimo. Invece no. Sembrano esseri riesumati dagli anni bui della pirateria, quando era normale pagare poche lire all’edicolante per una compilation di 30 giochi, o in seguito fondere il disk drive dell’Amiga a suon di copie con X-Copy, e infine a masterizzarsi l’ultima raccolta Twilight, e se compravi un gioco a prezzo pieno finivi bullizzato. Sentire gente lamentarsi dei loot box, dimentichi di aver dilapidato la pensione della nonna in figurine di calciatori mi fa sorridere. I videogame sono una bellissima forma d’arte e la nostra più grande passione, trattiamoli come si deve, considerando che dietro a ogni pixel c’è il sudore di lavoratori e una buona dose di stress degli investitori. Se un gioco ti piace, e lo prevede, non dovrebbe essere un problema spendere per un piccolo extra. O almeno non scandalizzarsi quando viene gentilmente proposto un acquisto non necessario. Accade ovunque.

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Ecco TGM 400, finalmente ci siamo! https://www.thegamesmachine.it/edicola/260101/ecco-tgm-400-finalmente-ci-siamo/ Mon, 17 Jul 2023 12:05:14 +0000 https://www.thegamesmachine.it/?p=260101 E così, il momento è arrivato: TGM 400 arriva nelle edicole, per gli abbonati e nelle versioni digitali. Celebrare questa pazzesca meta di The Games Machine – nuovo traguardo che solo noi possiamo sbandierare nel mondo – è un compito che Paolone svolge al meglio nello specialone che capeggia la rivista, a fronte di una militanza tra le file di TGM più che doppia rispetto alla mia.tgm 400 Aggiungo solo che, ancora oggi, al solo scorgere il logo di TGM mi scorrono antichi brividi lungo la schiena, riportandomi al lungo periodo da appassionato lettore e, ovviamente, anche a un fatidico giorno di 16 anni fa, in cui la mia vita ha iniziato ad avanzare all’unisono con questa gloriosa rivista. Una collaborazione, quella iniziata a fine 2006, che inizialmente obbligava a limitazioni di un’era già crepuscolare, semplici ma rappresentative dei tempi: durante la benedetta telefonata in cui Stefano Silvestri mi disse che sì, dopo anni di “gentile” rapporto epistolare (le virgolette sono d’obbligo, per farmi notare scrivevo frasi scurrili nell’oggetto delle email) la mia militanza a TGM sarebbe iniziata, lo stesso caporedattore precisò che il mio contributo avrebbe dovuto limitarsi ai dossier d’approfondimento – nel tempo ne avrei accumulato quasi un centinaio, talvolta 2 per mese, a cavallo tra videogiochi, cinema, fumetti e tecnologie al confine della mia amata fantascienza. Il motivo è presto detto: abitavo relativamente lontano e i giochi da recensire arrivavano fisicamente in redazione attraverso dischi “blindati”, che non potevano lasciare gli uffici milanesi nemmeno con la più costosa e riservata delle spedizioni. L’unica alternativa possibile era ricorrere a difficili operazioni di importazione parallela, cosa che feci allegramente prediligendo alcune carismatiche opere provenienti dall’est Europa; ricordo, ad esempio, la recensione del bel Cryostasis prima che raggiungesse il nostro mercato e, qualche tempo dopo, diventasse uno dei giochi allegati a TGM. Tutto questo fino all’arrivo del ToSo al timone della nave, che ampliò notevolmente la mia presenza sulla rivista – nel giro di un paio d’anni la situazione si era già ammorbidita, a parziale completamento della rivoluzione digitale – tanto da permettermi di scrivere un numero di pagine che nemmeno nei miei sogni più arditi sarei riuscito a immaginare.tgm 400Per il resto, tornando bruscamente al presente, credo che il mio compito principale in queste righe sia traghettarvi verso TGM 400, sottolineando struttura, scelte visibili e impliciti intenti: innanzitutto, considerata la foliazione robusta ma lontana da altri tempi, abbiamo voluto ampliare i contenuti più manifestamente graditi, piuttosto che ricalcare vecchie rubriche o spazi piaciuti meno, come quelli pur onorevoli su cinema e mobile gaming (in futuro vedrei bene una rivisitazione del TGM After, ma questa è un’altra storia). Maggior spazio a RetroTGM e ai viaggi nel tempo, anche tecnologici, con Paolone e Dan Hero sul podio, mentre il nuovo TGM NeoClassic rappresenta un caso speciale per un paio di motivi: da un lato, la rubrica va a rafforzare – accanto a Correva l’Anno – la narrazione di un periodo del gaming più recente che, a ben vedere, è già diventato Storia con la esse maiuscola; dall’altro, lo stesso articolo evidenzia un’altra caratteristica ricorrente di TGM negli ultimi anni, col continuo intrecciarsi di tematiche connesse per giochi e approfondimenti.Il NeoClassic su Limbo fa il paio con la review di Planet of Lana, illustrando le strade delle moderne Cinematic Adventure, il racconto della lunga storia di The Games Machine ha un suo prolungamento ideale nel TecnoTGM, disquisendo del PC gaming lungo i decenni, e ancora la recensione di System Shock si sposa perfettamente al TGM Classic; l’analisi del titolo di copertina, ancora una volta, si snoda tra il reportage in cover story e l’intervista finale del TGM Incontra – grazie a una prova più nutrita che SEGA ci ha concesso su Total War Pharaoh, nuovo rampollo di una della saghe strategiche più “identitarie” del mondo PC . Va detto che questo è un numero pazzesco pure nelle recensioni, tra cui spiccano gli approfonditi giudizi finali su Diablo IV (scelta più scontata per la cover; come avete visto, però, abbiamo voluto marcare il suo arrivo in una copertina interna), Street Fighter 6 e, nell’Highlight Console, Final Fantasy XVI.L’impegno, infine, per farvi avere il gioco da tavolo di TGM – tramutando in realtà il nostro più recente Pesce d’Aprile – è diventato un nuovo e incancellabile “ricordo primario”, insieme bello e terribile, un po’ come i sogni ricorrenti sui primi temutissimi esami scolastici, le prime cotte e, nel nostro caso, i videogiochi che ci hanno a loro modo segnato. Da oggi vorrei svenire un paio di mesi, ma fermarsi è impossibile: un altro segno dei tempi è il nostro ottimo thegamesmachine. it, che non consente stacchi nemmeno di un giorno. Croce e delizia, laddove le profumate pagine di TGM 400 sono solo ed esclusivamente piacere.

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