È molto comodo e auto-assolvente prendersela con Geoff Keighley per quel “please wrap it up” ai The Game Awards, per aver schivato la questione israelo-palestinese o non aver parlato dei licenziamenti nell’industria. Ma di tutte queste storie a noi, in fondo, interessa davvero?
Geoff Keighley si è manifestato a noi vent’anni fa con la promessa di uno show che fosse per il videogioco quello che gli Academy Awards – gli Oscar – sono per il Cinema. Gli abbiamo creduto, perché dentro di noi è vent’anni e forse anche più che soffriamo nel vedere “videogioco” scritto con la minuscola mentre la “C” di Cinema ci sembra così gigantesca. Non ci siamo minimamente posti il problema che un Academy il videogioco non ce l’ha, come non ha uno Star System: sulle copertina c’è il nome del team di sviluppo e il logo del publisher, quello di Hideo Kojima lo abbiamo tolto nel 2014 e poco importa se poi nel 2019 è stato rimesso per questioni di marketing. E quindi Geoff Keighley ci ha dato i nostri Oscar, ma senza quei nomi che sfruttano gli Oscar per far sentire la loro voce. Ai TGA puoi ringraziare Marx quando alzi una statuetta, ma nessuno può sentirti urlare quando perdi la tua Proprietà Intellettuale.
CARO FARES TI SCRIVO
Il problema di fondo è questo. Vogliamo disperatamente essere visti come Hollywood, perché Hollywood è una cosa che nessuno definirebbe “per bambini” e nessun senatore paragonerebbe mai alla droga. Solo che appunto a rendere Hollywood tale sono le personalità. Il biglietto lo compri per vedere i Di Caprio e le Johansson, laddove nei videogiochi compri perché è Mario, al massimo perché è Naughty Dog. Chiaro, esistono le eccezioni – esistono le rockstar – ma quando per qualche motivo un autore riesce ad emergere a dispetto di quello che vogliono gli executive dell’azienda finisce per diventare uno strumento da utilizzare. Se ti chiedessi cosa pensi che sia il videogioco forse risponderesti “arte” o “cultura”, ma la verità è che molto spesso mi staresti dicendo una bugia. Per tanti di noi, lo ammettano o meno, il videogioco è soprattutto intrattenimento. Allo stesso tempo però c’è di mezzo la parola “gioco”, e il gioco, si sa, è infantile, per cui sentiamo questa necessità di innalzare il medium per non sentire questo senso di colpa, ed il lavoro c’è reso più facile (sicuramente più facile rispetto a capire perché nasce questo senso di colpa) proprio da momenti come i TGA. La fotografia perfetta di tutto questo sentiment è Josef Fares che urla “fuck the Oscars” sul palco di Geoff: dice allo stesso tempo a noi giocatori che ce l’abbiamo fatta e diventa un’emanazione dell’industria che celebra se stessa, appropriandosi dell’entusiasmo e della storia dello stesso Fares.
Quest’anno qualcuno ha iniziato a vedere dietro questa maschera. Inevitabile, quando decidi di allocare un sacco di tempo al nuovo progetto del già menzionato Kojima e (coincidenze?) del regista Jordan Peele e poi ti ritrovi a chiedere di stringere quando sul palco sale qualcuno che oltre a ritirare una delle statuette che sono il pretesto della serata prova a dire qualcosa, a ricordare un collega morto meno di un mese fa. Altra gente ha fatto notare come il focus si sia spostato da tempi non sospetti dai premi (ormai quasi un MacGuffin attorno a cui girano i TGA) ai trailer, con diverse categorie premiate off-screen durante gli stacchi pubblicitari e a dirla tutta alcune nomine estremamente questionabili. Ma è davvero così sorprendente che il pubblico di un’industria che ha nell’hype il suo Unico Vero Dio sia collegata ad una delle migliaia di dirette su Twitch dell’evento essenzialmente perché gli interessa vedere OD di Kojima e non chi si porta a casa il Game of the Year? Le categorie sono funzionali a creare il contesto in cui poi i TGA prosperano, perché le discussioni tra appassionati tra chi sia più meritevole dello status di GOTY tra Alan Wake 2 e Baldur’s Gate 3 generano un sacco di interazioni e la chiacchiera si traduce in audience, ma alla fine tolta la categoria principale il resto dello show serve da surrogato dell’E3. Molto più di quanto non sia il Summer Game Fest.
NO MAN’S SKY IN THE GAME AWARDS
La domanda da porsi è a chi serva tutto il carrozzone. Sicuramente qualche sviluppatore ne trae un ritorno, e quel trailer di Pony Island 2 alla fine forse per Daniel Mullins è un modo di affermare il suo nome rimanendo fuori dal sistema dopo averlo sfruttato comunque facendosi pubblicare Inscryption da Devolver Digital. Ma è quasi un “danno collaterale”, uno di quegli autori di cui si diceva sopra riescono a scappare ma poi alla fine finiscono per restituire almeno quanto ricevono, perché Geoff Keighley dando spazio a Mullins di fatto fa indiewashing con le stesse regole di ingaggio delle due categorie dedicate a questa buzzword. Il primo a guadagnarci è ovviamente Geoff, che è sempre di più una personalità centrale per quanto riguarda la comunicazione del videogioco.
A oggi o sei Rockstar, Sony, Nintendo o un altro grande nome (e quindi hai i tuoi canali e i tuoi eventi) oppure devi passare da TGA e Summer Game Fest per raggiungere il grande pubblico. Il che vuol dire che il tariffario al minuto per questi due spazi è tariffato di conseguenza. Più in generale a guadagnarci è l’industria: alla fine della fiera è l’hype quello che piazza i preordini, e tenerne le redini permette di controllare la percezione che poi il pubblico di massa ha dell’industria stessa e dei nomi che la compongono. All’uomo della strada non interesserà mai sapere quanto è costato in termini di crunch Cyberpunk 2077. Ora come ora vuole la conferma che alla fine ha fatto benissimo a comprarlo al day one (ha addirittura vinto un premio dopotutto!), e se chi racconta come stanno davvero le cose non trova spazio sul palco l’uomo della strada continuerà a condurre un’esistenza dove il problema del crunch non lo tange, e non c’è nessun problema di consumo etico all’interno del videogioco.
Questi spazi premiano la memoria corta, perché se la nostra memoria è corta allora non solo Cyberpunk 2077 diventa una grande storia di riscatto, ma Sean Murray può rifare la stessa comunicazione già vista dietro No Man’s Sky per il prossimo gioco di Hello Games, come nella definizione di follia di Vaas Montenegro. Il 9 agosto 2016 è lontanissimo, una patch alla volta ci siamo dimenticati di tutte le promesse a vuoto e degli strilli buoni solo per prendersi spazio sulle copertine dei magazine a scapito di altri sviluppatori. Si parla già di un pianeta grande quanto la Terra completamente esplorabile e vivo, non ci interessa che poi Hello Games su Linkedin ricada nella tier 11-50 dipendenti (l’ultimo dato, aggiornato al 2020, ne contava 26). Ci piace poter credere a questo ennesimo sogno e quindi contro ogni buonsenso ci crediamo nonostante i precedenti, e l’industria si alimenta di questo nostro desiderio. Sono queste le cose che a noi piace ascoltare e a loro raccontare, non i report sui 7000 dipendenti rimasti a casa solo quest’anno mentre in parallelo si assumevano delle società specializzate nell’ostacolare la sindacalizzazione della forza lavoro. Keighley ne ha preso semplicemente atto intercettando una domanda che in fondo è la stessa domanda, sia da parte di chi i videogiochi li fa che di chi li compra. È escapismo. Vogliamo che sia tale. I TGA ce lo raccontano così.
È molto più facile cercare conferme che ascoltare il dubbio. Quelle vocine sono scomode, rumori di fondo da eliminare con l’auto-equalizzatore di Spotify o quantomeno da coprire con altre voci, più rumorose, più festanti, più seducenti. Incidentalmente anche molto meno significative, ma alla fine che importa? I TGA sono uno Specchio delle Brame in cui vediamo riflesso tutto quello che abbiamo sempre desiderato, e quello che abbiamo sempre desiderato è una grandissima festa comandata che ci distragga dai nostri problemi, non qualcosa che ci colpevolizzi per quelli degli altri.