Quelle vite che vale la pena vivere

C’è un detto che gira da tempo nella community dei videogiocatori, prima che i meme venissero conosciuti come meme. Un detto che fa, più o meno, “Sono un videogiocatore perché non ho vissuto solo una vita, ma ne ho vissute centinaia”. Un detto che, a ripensarci oggi, sembra una di quelle cose che si postavano da adolescenti su Facebook o si mettevano come status sulla chat di MSN. Però alcune di quelle vite vale davvero la pena viverle.

L’idea di scrivere questo articolo è nata primo, beh, quando dalla redazione mi hanno detto “oh Marco guarda che adesso è il tuo turno di inventarti qualcosa per l’editoriale.” E secondo, e più importante, quando ho provato Liyla and the Shadows of War, un gioco gratuito, breve e non particolarmente complesso che vede un padre cercare di portare al sicuro una figlia. Niente scenari fantastici in questo caso, però: l’ambientazione è quella della guerra che lo stato di Israele ha mosso alla striscia di Gaza nel corso del 2014. Vedere i missili e le bombe israeliane colpire case, scuole, ambulanze, e i numeri del conflitto che appaiono sullo schermo dopo la fine del gioco, mi ha fatto tornare immediatamente alla mente quelle immagini che dal 7 ottobre in poi tutti abbiamo visto in televisione o sui social, ed è servito a ricordarmi ancora una volta che per chi vive a Gaza questa guerra non è una tragedia improvvisa e inaspettata ma solo l’ennesimo capitolo di una storia sanguinosa che va avanti da decenni.

I FRAMMENTI DELL’ANIMA

Liyla and the Shadows of War mi ha fatto tornare in mente quei giochi che, in un modo o nell’altro, mi hanno fatto sentire una connessione con le mie esperienze, o che mi hanno aiutato a capire quelle di altri. Prendiamo What Remains of Edith Finch, per esempio. Nel walking simulator di The Astronauts, Edith Finch si reca nella casa di famiglia per rispolverare quella che è stata la storia della sua famiglia. Una storia tragica: quasi tutti gli inquilini di quella particolare casa, ciascuno per conto suo, sono infatti morti.

c’è del bizzarro nella storia dei Finch, ma ciò che non è bizzarro è lo sforzo di ricostruire la vita di qualcuno che non c’è più

C’è del bizzarro nella storia dei Finch, ma quello che non è bizzarro o lontano dal mondo reale è lo sforzo di ricostruire la vita di qualcuno che non c’è più, partendo da quei frammenti della loro vita che sono rimasti e da quei ricordi che ancora sopravvivono nella nostra mente. Ripensare a Edith Finch che vaga per le stanze vuote della sua casa, ciascuna un ricordo di un membro della sua famiglia, mi ha fatto ripensare a quella valigia in soffitta dove sono conservate tante delle carte di mio nonno. Le sue pagelle, le lettere ricevute mentre era prigioniero in Germania, le fitte pagine che ha scritto sugli eventi del dopoguerra che più lo avevano colpito. Mio nonno l’ho conosciuto di persona quando ero più giovane, quindi non sono quelli gli unici ricordi che ho di lui, ma è scomparso quando ero adolescente. Ed è solo quando la gente non c’è più che ti rendi conto di non averci mai parlato abbastanza.

Meno drammatico è un altro giochino che si è ritagliato un posto speciale nel mio cuore, cioè A Short Hike. Qui interpretiamo una giovane pennuta – i personaggi di questo gioco sono tutti  animali antropomorfi – che viene portata dalla zia a fare qualche giorno di vacanza su una lussureggiante isola. C’è un problema: la protagonista sta aspettando una chiamata, ma sull’isola non c’è campo. L’unico punto dove i telefoni prendono, come le spiega la zia, è Hawk Peak, l’altissima montagna che da quel punto in poi diventerà il nostro obiettivo. Solo che scalarla non è così immediato: prima di riuscirci dovremo accumulare piume girando per l’isola e facendo le varie attività. Sono attività divertenti, cacce al tesoro, gare con altri ragazzini dell’isola, insomma tutto è volto a presentare l’isola come un luogo di pace e di svago, lontani dalle preoccupazioni di tutti i giorni. Ma, come per noi l’obiettivo sullo sfondo resta scalare quel picco, anche per la protagonista la preoccupazione legata a questa chiamata è sempre presente. Una volta giunti in cima al picco, capiremo perché: il motivo per cui ci troviamo su quest’isola assieme alla zia è che la madre si trova all’ospedale per un’operazione.

a short hike

La chiamata, per fortuna, porta buone notizie: l’operazione è andata bene, e la nostra protagonista può finalmente rilassarsi. Anche qui, lo scenario è di fantasia, ancora più di quanto fosse in What Remains of Edith Finch; ma la sensazione di preoccuparsi per qualcuno o qualcosa – un caro che deve affrontare un’operazione, certo, ma può essere anche altro – e cercare di distrarsi ma senza mai riuscirci davvero è qualcosa che di sicuro tutti prima o poi hanno provato.

CIME TEMPESTOSE

Di esempi che si potrebbero fare ce ne sono tanti – più o meno l’intero genere dei walking simulator viaggia su queste righe, fin da quel Gone Home che ne è stato uno dei capostipiti – ma quello che voglio fare è un gioco che ci porta in un contesto ancora più di fantasia rispetto ad A Short Hike, e cioè Celeste. Credo che più o meno chiunque lo conosca dato che è uno degli indie più famosi degli ultimi cinque anni, quindi perdonatemi se la spiegazione vi sembra non necessaria: Celeste è un platform in cui ci caliamo nei panni di Madeline, una giovane che vuole scalare una montagna (giuro che non l’ho fatto apposta a metterlo a fianco ad A Short Hike).

la scalata del monte Celeste diventa ben presto una metafora dei dilemmi interiori di Madeline

Mano a mano che avanziamo lungo i livelli, grazie ai vari dialoghi diventerà ben presto chiaro che la scalata del monte Celeste è una metafora dei dilemmi interiori che Madeline stessa vive nel corso della sua vita di tutti i giorni: l’ansia che la paralizza, la difficoltà di accettarsi, la sensazione di inadeguatezza. Affrontare la montagna vuole essere una sorta di resa dei conti con questi aspetti della sua personalità; resa dei conti che non sarà sempre facile. Nel gioco – credo: ammetto che le B-Side sono già al di là della mia portata – non viene mai detto esplicitamente che Madeline è una ragazza transessuale, anche se viene suggerito da qualche dettaglio in alcune immagini. Ed è difficile non immaginare che ci sia anche qualcosa di autobiografico in questo, dato che anche la mente dietro al gioco e fondatrice di Extremely OK Games, Maddy Thorson, è anche lei transessuale. Giocare a Celeste (che, al di là dei discorsi sul messaggio, è anche una bomba come gioco) ci aiuta a capire almeno in parte il processo per cui passa l’accettazione della propria identità.

celeste

Con questo, chiaramente, non voglio dire che gli unici giochi che vale la pena giocare siano quelli che per un motivo o per l’altro vanno a toccare le corde dell’anima. Ultimamente ho ripreso a giocare a Warhammer 40,000: Darktide e mi ci sto divertendo un mondo. Però di sicuro sono giochi come Celeste, come A Short Hike, come What Remains of Edith Finch e come Liyla and the Shadows of War ad aggiungere quel qualcosa in più che rende speciali i videogiochi.

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