L’horror d’autore (e di genere) sta proliferando nei videogiochi – L'Opinione

Ari Aster, Robert Eggers, Jordan Peele, Mike Flanagan. Quattro nomi che, se vi interessate anche solo superficialmente di cinema, avrete sicuramente sentito nominare. Esponenti di spicco, sicuramente i più popolari, del così detto “elevated horror”, pellicole horror d’autore che negli ultimi anni sono diventate un vero e proprio fenomeno del grande schermo, capaci di reinterpretare il genere a livello audiovisivo ma, soprattutto, di utilizzarne il classico linguaggio per dare vita ad efficaci allegorie, dove l’orrore di relazioni tossiche, drammi familiari, sistemiche questioni sociali e patologie mentali diventa parte di un racconto dove lo spavento, il disgusto e la tensione non sono più fini a sé stessi, ma vengono utilizzati per turbare lo spettatore decisamente più in profondità, spingendo alla riflessione.




Non che non lo si facesse già in passato, però insomma, la quantità e la qualità di questa particolare declinazione di horror, negli ultimissimi anni, è stata stupefacente. Viviamo in un periodo di rivalutazione ed elevazione di un genere considerato (spesso a torto) per lo più trash, “divertente”, da serata con gli amici e il mercato videoludico ha dato una grossa mano a questa rinascita culturale.

L’HORROR DI ALAN WAKE II

Quello che sta suscitando Alan Wake II è sotto gli occhi di tutti e, d’altronde, già il primo capitolo fece molto scalpore, 13 anni fa, pur con tutti i problemi di uno sviluppo a dir poco complesso. Lo stesso Hideo Kojima ci aveva provato col mai-nato Silent Hills, a giocare in questo campo, riversando poi parte della sua visione horror in Death Stranding, dove il terrore di un mondo isolato, privo di comunicazioni e contatti sociali (che quasi profetizzava in certi aspetti il periodo pandemico che avremmo vissuto di lì a pochi mesi) si mescola a quello più tangibile e fisicamente pericoloso delle BT che infestano le lande desolate di questi Stati Uniti post-stranding, dando vita ad un’atmosfera unica, appiccicosa, dove muoversi in silenzio e in punta di piedi. Lake, Kojima ma anche Sam Barlow, che nell’orrore di Silent Hill ci è invece nato professionalmente, arrivando poi, da indipendente, a coronare il suo percorso da “giallista” di Full Motion Video con quel capolavoro di Immortality; sovrannaturale, conturbante, angosciante e magnetico, elegantissimo nel modo che ha di iniettare sottocute una paura intangibile, sussurrata, quella tipica del mistero e dell’insondabile, nonostante un gameplay che ci mette nei panni di una persona estranea ai fatti, lontana dai set di quei film maledetti. Quello che sorprende è la varietà di generi e design che è possibile utilizzare per creare, oggi, un horror videoludico efficace.

La pioggia e il silenzio che avvolgono il manifestarsi delle BT in Death Stranding rimane uno dei momenti più intensi della recente storia videoludica.

La formula del survival horror puro non basta più, oltre ad essere fortemente limitante se si vogliono affrontare certi tipi di discorsi. Probabilmente anche Remigiusz Michalksi era di quest’idea, nel 2012, quando creò il conturbante immaginario di The Cat Lady. Un punta-e-clicca dallo stile estetico fortemente disturbante e dalle meccaniche non particolarmente innovative che, però, riuscivano a veicolare un racconto emotivamente violentissimo, capace di toccare con cognizione di causa argomenti come depressione, suicidio, violenza sessuale e malattia terminale, collegati dal fil rouge della vendetta, accompagnando Susan Ashworth nella sua missione di morte, uccidendo uno a uno personaggi che incarnano il peggio dell’umanità.

The Cat Lady è uno dei titoli più disturbanti che abbia mai provato, davvero devastante.

È un fatto che, negli ultimi anni, il videogioco si stia confermando il modo migliore per raccontare la paura, soprattutto per la componente interattiva che accende nel giocatore un panico, un’urgenza, una gestione del ritmo impossibili (o quasi) da replicabile nella pur coinvolgente passività cinematografica, anche quando si parla di titoli di genere. Prendiamo The Medium di Bloober Team, che non è un titolo da museo o che viene in mente per primo quando si vuole consigliare un titolo horror. Sarebbe un buon film o una buona serie TV, probabilmente; è scritto bene, sta in piedi, ma in quel formato ce ne sono parecchie di storie simili. È nella sua forma videoludica che la scrittura viene esaltata, con la sua capacità di narrare attraverso l’ambiente (quello della periferia polacca), di dare tempo al giocatore per esplorare, assorbire dettagli, per poi concentrarsi sulla caratteristica meccanica ludo-estetica delle dimensioni parallele e contemporanee, costruendoci attorno enigmi intuitivi ma ben studiati, fluidi, mentre la tensione sale e la sensazione di essere osservati diventa sempre più tangibile.

L’INCUBO OVUNQUE

The Medium non è certo un gioco difficile, anzi: punta tutto sulla storia. C’è chi, grazie alla difficoltà proibitiva, riesce a trasmettere benissimo il suo messaggio. Darkest Dungeon di Red Hook Studios è uno dei migliori titoli d’ispirazione lovecraftiana mai creati, e non certo per la sua ottima componente audiovisiva. Avventurarsi in un labirinto espone i personaggi a malattie, fisiche e soprattutto mentali, che ne acuiscono i tratti più distorti delle loro personalità, influenzando il gameplay e mettendo costantemente a rischio la sopravvivenza del party nei feroci scontri contro le mostruosità che si annidano al loro interno. La morte permanente, le psicopatologie, il costante desiderio di scoprire cosa si nasconde nel buio, quasi irraggiungibile per design, con una difficoltà volutamente sconfortante, capace di simulare quei racconti in cui la verità non viene mai a galla, col protagonista che perisce, misteriosamente, ad un passo dal trovarla, risucchiato negli abissi dell’orrore.

Immortality è un’esperienza difficilissima da raccontare, una di quelle opere capaci di restare addosso e perseguitare i giocatori anche giorni dopo la conslusione

Io ho sempre detestato i survival horror, perché semplicemente mi mettono troppa ansia, non li ho mai trovati piacevoli, nonostante consumi, fin da giovanissimo, letteratura e cinema del genere con una certa disinvoltura. Ecco, questo strabordare dell’horror fuori dai confini di saghe strafamose come Resident Evil, Silent Hill, Forbidden Siren, ha sicuramente permesso a chi soffriva determinate situazioni di godere del genere in formato visual novel, RPG, avventura grafica, walking simulator, arrivando certamente a un pubblico più ampio, esattamente come è successo al cinema per chi era stanco (o non ha mai apprezzato) di vedere squartamenti, slasher, apocalissi zombie, dando al tempo stesso in pasto agli appassionati nuove idee, interpretazioni, argomenti, gameplay. Questa contaminazione, per me, è sempre un bene, anche perché la qualità delle opere è qui a dimostralo e, ancora di più, è un bene per l’horror, arrivato ad una maturità e una qualità totalmente inediti finora. La bellezza del terrore.

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