Cosa può fare la critica per i videogiochi? – L'Opinione

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

Circa 3 miliardi di persone (su 8) giocano ai videogiochi. Cosa possiamo fare per far giocare gli altri 5? E soprattutto, cosa dobbiamo fare per fare in modo che chi sta già giocando riconosca i videogiochi come arte e cultura?

Lo scorso weekend ero a Trieste per gli IVIPRO DAYS. Sono stati due giorni di panel e interventi sulla Game Culture in generale, ma per forza di cose a rimanermi più addosso è stato il talk “Divulgare i videogiochi” del sabato mattina. Il discorso ruotava attorno al ruolo di critici e content creator in generale e alla responsabilità di queste figure nei confronti del pubblico dal punto di vista della consapevolezza del medium. Finiti gli interventi c’era uno spazio per le domande della platea. È a quel punto che mi sono reso conto di non avere nessuna domanda da fare, ma diverse considerazioni. Ed eccomi qui, signor giudice.

 A CHI PARLA LA CRITICA?

La prima cosa da fare è chiedersi come il videogioco sia riuscito a raggiungere 3 miliardi di persone, diventando ad oggi un’attività che oltre il 40% della popolazione mondiale svolge. Questo non è successo grazie a PlayStation e Xbox. Per quanto le console abbiano giocato un ruolo culturale importantissimo (PlayStation è per esempio la macchina che ha permesso al videogioco di non essere più comunicato e distribuito come giocattolo) parliamo di piattaforme capaci di raggiungere una o due centinaia di milioni di giocatori ad ogni generazione. Fisiologico, visto che giocare su console (e in buona parte anche su PC) implica acquistare una macchina ad-hoc da destinare soprattutto all’atto di videogiocare.

La prima cosa da fare è chiedersi come il videogioco sia riuscito a raggiungere 3 miliardi di persone

Se Bill Gates nel 1975 vedeva nel futuro “un computer su ogni scrivania e uno in ogni casa”, l’essere umano è andato oltre. Oggi abbiamo un “computer” in ogni tasca, ed è un dispositivo da cui passa tutta la nostra vita. E quindi se nel 1994 Microsoft sfruttava i videogiochi per diffondere il suo nuovo sistema operativo a botte di porting di DOOM e introducendo le DirectX oggi la situazione si è invertita e il cavallo di Troia è lo smartphone. L’8% del tempo speso usando lo smartphone è dedicato al giocare, e da questi dispositivi passano il 77,7% dei ricavi dell’industria. Eppure quando parliamo di videogiochi ci rivolgiamo ad un pubblico che utilizza tastiere e controller, e molto spesso ignoriamo il mobile anche quando si tratta di manovre come l’acquisizione di Activision-Blizzard-King. Per mesi ci si è preoccupati del futuro di Call of Duty, ma il vero colpo di Microsoft è stato portarsi a casa Candy Crush.

Il paradosso è questo: la critica (o quantomeno, quella che definiamo tale guardando a testate di settore e content creator) parla ad una nicchia specifica di pubblico. All’interno di questa nicchia però prova a raggiungere disperatamente chiunque ne faccia parte. Il risultato è quello di ragionare sui grandi numeri e, in un certo senso, di provare a dare alla gente quello che vuole. È anni che ci si racconta di come l’approfondimento non abbia mercato perché la news di attualità  di turno genera dieci volte gli accessi di una retrospettiva su Ghost ‘n Goblins, senza però andare a indagare i perché dietro questi numeri.

È anni che ci si racconta di come l’approfondimento non abbia mercato perché la news di attualità  di turno genera dieci volte gli accessi di una retrospettiva su Ghost ‘n Goblins

È evidente che l’approfondimento non sia per tutti, trattandosi di contenuti verticali che vanno in profondità delimitando il pubblico potenziale (io che non gioco a Ghost ‘n Goblins lecitamente non sono interessato, per esempio). Ma dall’altra parte se il contenuto medio che viene proposto da una pubblicazione o da un canale è legato alla notizia o alla curiosità, è davvero così sorprendente che i lettori preferiscano questi agli approfondimenti verticali? Chiaro, specie considerando che poi a queste latitudini parliamo una lingua che raggiunge 70 milioni di persone scarse, bisogna entrare nell’ordine di idee che l’approfondimento non farà mai i click (o le visualizzazioni, o i like, quello che vuoi) di altri contenuti. L’errore però a questo punto è fare questo tipo di proposta in un business model che premia quelle metriche. Quelle metriche si inseguono sia per la “mipiacina” che rilasciano che per i ricavi che potenzialmente generano grazie alla pubblicità. Ma 300 persone disposte a sottoscrivere un abbonamento di 5€ al mese genererebbero comunque un introito di 1500€. È una strada che peraltro il game dev sta già percorrendo da un po’, con sviluppatori che decidono di rilasciare i loro lavori in abbonamento o più in generale chiedono il supporto della loro community in cambio di qualche benefit e l’accesso al server Discord per i paganti. HopFrog, la mente dietro Forager, ne è un esempio.

FUORI DAL LETTO NESSUNA PIETÀ

Durante il panel che citavo all’inizio si è portato l’esempio di una tattica di “guerriglia divulgativa” che prevede l’inserimento (quasi a tradimento) di tematiche culturali in pezzi che riguardano i videogiochi. Sto parlando di Final Fantasy 7 Remake, e allora inserisco degli approfondimenti sull’ecoterrorismo. Oltre ai problemi di cui sopra (ovvero il proporre questi contenuti di fianco ad altri “cotti e mangiati” e il parlare solo con una nicchia di persone all’interno della platea) questa strategia non affronta l’elefante nella stanza, ovvero il problema da cui a cascata derivano quasi tutti gli altri problemi che i videogiochi soffrono a livello culturale. Si continua a parlare a gente che ha già in un certo senso accettato il videogioco, e anche se magari non lo considera davvero arte o cultura e vorrebbe la politica fuori da Call of Duty (oh, piccolo figlio dell’Estate…) riconosce al medium una certa importanza. Importanza che buona parte dei 5 miliardi di popolazione che ad oggi non gioca non percepisce.

Entriamo in contatto con tutte e sette le altre arti già durante il nostro percorso di studi. A scuola ci fanno leggere, sono previste delle ore di Musica e nel corso di un anno scolastico un paio di capatine nell’aula Cinema si fanno. Entrare in contatto coi videogiochi invece è molto più improbabile, e statisticamente quando succede è perché è il videogioco stesso ad essere sceso a compromessi “marketizzandosi” come il gioco dedicato a questo o a quel museo o aggiungendo l’etichetta “serious” prima di quella “game”. Venendo meno la scuola, si rimane ostaggio di quello che il mainstream decide di proporre e su cui investe (con la sicurezza di avere un ritorno).

Venendo meno la scuola, si rimane ostaggio di quello che il mainstream decide di proporre e su cui investe

È come se alle medie invece della Commedia di Dante si leggesse la saga di Twilight, o qualunque cosa sia diventata pop in spregio di quello che può essere il suo valore o il suo messaggio. Non è un problema da poco. Ricordo che alle elementari per una recita di Natale ci avevano fatto imparare Imagine di John Lennon. Ricordo che non avevo capito perché ad un certo punto un verso recitasse “imagine no religion”. Ricordo di essermelo chiesto, e di averlo alla fine capito proprio perché mi stavo facendo quella domanda. Perché lo stesso dubbio vale di meno, se a suggerirmelo è Metal Gear Solid 3?

La critica dovrebbe provare a parlare anche con chi non gioca. Scrivere di ecoterrorismo e poi infilarci a tradimento Final Fantasy 7, oltre a fare il contrario. Mostrare come l’attualità si rifletta nei videogiochi, sfruttarla per far venire il dubbio a chi ha deciso che il pad e/o la tastiera non sono cose sue che forse si sta perdendo qualcosa di grosso, che a volte sa essere anche meraviglioso. Sui giornali si racconta sempre di quanto i DOOM e i Grand Theft Auto siano mandanti di stragi. Succederebbe molto meno, se ci abituassimo a parlare di quella volta che Hideo Kojima ci ha spiegato John Lennon attraverso The Boss.

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