Mentre leggerete queste righe, il mondo avrà espresso il suo giudizio sull’ultimo grande capitolo dedicato allo spartano più incazzoso di sempre (qui trovate la nostra recensione) ed era anche logico per noi voler tornare alle origini del mito, un po’ per tutti quelli che non lo hanno vissuto fin dai suoi esordi, un po’ per ripercorrere assieme la fulgida carriera del più grande serial killer di divinità della storia.
AH, LA KRATOSMACHIA!
Era una calda estate quando nel Vecchio Continente faceva la sua comparsa un pallido spartano, a distanza di diversi mesi dal suo esordio in territorio americano, dove aveva strappato eccezionali consensi da parte di critica e pubblico. Rammento di esserne rimasto immediatamente folgorato: non ricordavo di aver mai visto un gioco partire con il suicidio del suo protagonista, un’immagine potente che serviva a introdurre una narrazione dove violenza, vendetta e tradimenti si miscelavano alla perfezione, dando vita a uno dei personaggi più iconici dell’universo videoludico moderno. Kratos è l’autentica incarnazione dell’anti-eroe: un uomo retto, cresciuto nel rigore assoluto imposto dal durissimo regimo spartano, che nella sua ora più buia commette l’errore fatale di vendere la propria anima ad Ares, il potente dio della guerra, pur di sconfiggere i suoi nemici. Il prezzo da pagare si rivela però altissimo: le Spade del Caos, armi dal formidabile potere forgiate nelle profondità del Tartaro, si legano indissolubilmente ai suoi avambracci attraverso lunghe spire di catene, mentre una furia incontenibile lo consuma fin nell’anima. Divenuto una pedina nel gioco mortale di Ares, verrà ingannato e portato a uccidere la sua stessa famiglia. E come nelle autentiche tragedie greche, le punizioni e le maledizioni non finiscono mai, tanto che dopo aver cremato moglie e figlia, si ritroverà ricoperto dalle loro ceneri per l’eternità, dando vita alla leggenda del Fantasma di Sparta.
Kratos è l’autentica incarnazione dell’anti-eroe
UNA RABBIA CHE VIENE DA LONTANO
Di certo David Jaffe aveva le idee molto chiare quando prese le redini del progetto God of War. A quei tempi – parliamo di oltre 15 anni fa – Santa Monica Studio non era che uno dei tanti team di Sony, con a curriculum solo uno strano racing game futuristico chiamato Kinetica, recentemente rimasterizzato su PS4, ma per lo più dimenticato da buona parte del pubblico. L’engine di quel gioco servì tuttavia come base per il primo God of War, che invece entrò di diritto nella storia videoludica moderna. Il successo di quella operazione lo dobbiamo per gran parte proprio al caro David, che fece passare le pene dell’inferno al team di sviluppo, con il quale aveva spesso e volentieri scontri molto duri su come dovesse essere il gameplay, la grafica e lo storyboard, tirando fuori tanto il meglio quanto il peggio dai suoi ragazzi. Questa precisa volontà di non voler scendere mai a compromessi, spingendo al limite delle proprie possibilità anche l’hardware di PS2, ha portato alla nascita di un prodotto unico e assolutamente riconoscibile, dotato di un’identità così potente da non poter essere ignorata neanche dai più incalliti detrattori.
Il motore grafico di Kinetica servì come base per il primo God of War
SEI CAPITOLI PER SEI REGISTI
Uno degli aspetti più affascinanti relativi allo sviluppo di questa saga è il fatto che ogni capitolo ha avuto un suo game director. Ognuno dei “registi” ha inevitabilmente lasciato la sua impronta, influenzando di volta in volta il carattere di Kratos, la narrazione e il gameplay. Con God of War II Cory Barlog ha voluto dare un senso di continuità, migliorando ogni aspetto del primo titolo, ma senza stravolgerlo nella sua essenza, spiazzando oltretutto il giocatore con un finale apertissimo a un seguito, inevitabilmente destinato ad apparire su PS3. E ci vollero anni per completare quel progetto, tanto ambizioso e complicato da costringere Barlog a sganciarsi in pieno corso d’opera, lasciando la patata bollente in mano a Stig Asmussen, fino a quel momento direttore artistico della serie. Forse fu proprio questa sua propensione all’estro visivo che permise di dar vita a una delle sequenze iniziali più incredibili d’ogni tempo, un qualcosa che persino oggi si fa fatica a ritrovare nei titoli moderni. Ne pagò le conseguenze un ritmo di gioco a tratti più blando, con degli enigmi ambientali meno interessanti rispetto a quelli proposti nei titoli precedenti. La serie poi si chiuse con un prequel, Ascension, diretto da Todd Papy, uno dei principali designer della saga. Nonostante l’incredibile sforzo tecnologico, si iniziava a percepire una certa stanchezza nelle meccaniche e probabilmente non aiutò in tal senso la dispersione di tempo e risorse dietro la modalità multiplayer.
ogni capitolo ha avuto un suo game director